Il pane ha sempre rappresentato il sostentamento principale nelle case dei vichesi. Si può dire che esso era un elemento essenziale che non doveva mai mancare. Le brave massaie di un tempo impastavano diversi chili di farina per ricavarne pagnotte enormi, che avrebbero assicurato a tutta la famiglia una sufficiente provvista per almeno quindici o venti giorni. Il fornaio (u furnar), figura mitica di quei tempi, era l’artefice numero uno, colui che doveva assicurare alle sue clienti una buona cottura del pane, di pizze, taralli e pastarelle, per soddisfare al meglio il palato di tutti. La sera precedente, la massaia si preoccupava di avvisare il fornaio del quartiere, poiché il giorno successivo avrebbe preparato l’impasto da cui si ricavava un pezzetto di pasta per ottenere “u luvatedd” (lievito). L’impasto veniva messo a lievitare per otto giorni in un ciotola di creta con sopra un po’ d’olio per evitare il formarsi della muffa. Quando in casa mancava il lievito, lo si chiedeva alla comare che aveva fatto l’ultimo impasto. Il procedimento era piuttosto lungo e faticoso e richiedeva delle braccia forti per lavorare insieme tutti gli ingredienti. Dal lievito si ricavava “a krscent” (la crescenza) che veniva aggiunta a due chili di farina; l’impasto si lasciava riposare fino al giorno successivo. Il secondo passaggio consisteva nel lessare le patate, schiacciarle ed unirle a venticinque chili di farina con acqua e sale. Il tutto si preparava in un grosso contenitore di legno “a fazzatur” (la madia), dove veniva lasciato riposare per tre ore, dopo averlo coperto con dei panni di lana per favorire la lievitazione. Il fornaio faceva il giro per le case ed avvisava le massaie di preparare le pagnotte. Esse venivano collocate nei cesti, ricoperte con un panno e su di esse al centro, un simbolo fatto con l’impasto (tarallo o croce), affinché ogni famiglia potesse riconoscere la propria pagnotta. Gli avanzi della pasta di pane venivano raccolti con una paletta di ferro e rimpastati per ricavare “a pizza gascm” condita con olio e zucchero. Il fornaio ripassava a ritirare “i cruedd” collocandole su una tavola lunga posta sulla testa su di uno straccio attorcigliato, chiamato “a spar”. A cottura ultimata procedeva alla consegna delle pagnotte. Passando davanti ai forni, il profumo del pane cotto e croccante penetrava attraverso le narici stimolando le papille gustative. Quale goduria! Ogni pagnotta poteva raggiungere il peso di cinque-otto chili. Esse venivano avvolte in teli di lino e conservate nelle credenze. Una spettava al fornaio, oltre alle “Pagnottine di S. Rocco” che ogni famiglia donava, affinché venisse rivenduta, e il ricavato di un intero anno, nel mese di agosto, veniva donato durante la processione di S. Rocco.