Il prof. Saverio Russo, docente di Storia Moderna presso l’Università di Foggia, è intervenuto nel dibattito aperto dalla delibera del Consiglio regionale pugliese che ha istituito la
condividendo la presa di posizione di alcuni colleghi dell’Università di Bari, preoccupato che la ricerca storica possa essere espropriata dal suo compito di costruzione della memoria collettiva. È una preoccupazione condivisibile. Ma non giustifica del tutto la reazione degli storici del Disum (dipartimento di studi umanistici) dell’Università di Bari, che turbati dall’idea che la Giornata della Memoria possa assumere i caratteri di un revisionismo storico acritico, insinuano – sbagliando, a mio avviso - che la visione dell’arretratezza del Mezzogiorno possa essere attribuita al processo di unificazione italiana. Ma può, ancora oggi, essere seriamente ritenuto, nonostante le recenti ricerche di studiosi ed economisti, seri e documentati, quali Daniele, Malanima, Fenoaltea e Ciccarelli, che il Sud, all’atto dell’unificazione, fosse più arretrato del Nord e che non furono le politiche fiscali e doganali imposte con la forza ad allargare il quadro dell’arretratezza fino a creare sottosviluppo al Sud? E nemmeno si può ritenere condivisibile, e quindi sottoscrivibile, l’iniziativa della petizione online lanciata da Lea Durante, docente di letteratura italiana a Bari, visto che, tra l’altro, ammette lei stessa che troppo a lungo e troppo spesso si sono sottovalutati, nella divulgazione storica, gli episodi di violenza esercitati dalle truppe piemontesi nel Mezzogiorno. Non sono forse le vittime di quella violenza, in quel contesto storico, che si vogliono onorare con la Giornata della Memoria? Preoccupa invece, e non poco, che sul necessario revisionismo del nostro processo unitario, il confronto scientifico possa andare incontro ad uno scontro politico, sociale e culturale. Nel suo intervento, il prof. Saverio Russo, ha scritto di aver fatto parte della comunità di ricerca degli storici dell’Università di Bari (1983-1998) e ha rivendicato, – citando, tra gli altri, il prof. Angelo Massafra – che già quella generazione di studiosi aveva preso le distanze dal paradigma “risorgimentale” e “sabaudista” della storia del Mezzogiorno, che vedeva ovunque arretratezza nel Regno delle Due Sicilie e leggeva il processo di Unificazione come un’epopea di eroi senza macchia contro barbari sanguinari. Ed è proprio su alcuni di questi studi, noti a pochi, che sarebbero il caso di porre l’attenzione, lasciando alle spalle sterili polemiche e cercando di accorciare le distanze tra mondo accademico e sentire comune, affinché la discussione sul nostro processo unitario non passi dal confronto allo scontro in un agosto già climaticamente infuocato. Riguardo la Capitanata del Settecento, le strutture e le infrastrutture produttive e commerciali e i conseguenti rapporti che si concretizzavano tra le diverse e variegate filiere della produzione, del trasporto e del commercio, erano essenzialmente finalizzate ad assicurare il rifornimento di grano alla capitale Napoli. In questo contesto infelice, il rapporto tra produttori e mercanti di cereali era nettamente spostato a favore dei «monopolisti», che utilizzavano a proprio vantaggio il contratto «alla voce», assicurandosi indisturbati, il persistere e il prevalere di una rendita mercantile, fondatamente ritenuta usuraia. Studi recenti sulla Capitanata del Settecento, come afferma il prof. Russo, sono andati realmente incontro ad un tentativo revisionistico volto a sottrarre Foggia, e il suo Tavoliere, ad una visione, usuale e consolidata, di terra spopolata perché infelice, malarica perché non regolata idrogeologicamente, assolata e desertica perché consegnata al pascolo transumante, poco e male coltivata perché climaticamente avversa. Una terra in cui diverse generazioni di studiosi, di riformatori, di economisti illuminati, pur reclamando a gran voce l'abolizione del sistema vincolistico della Regia Dogana, la censuazione delle terre demaniali in piccoli lotti, la formazione della piccola e media proprietà contadina, la bonifica delle aree malsane e incolte, la soppressione delle «chiese morte», l' eliminazione del sistema feudale, avrebbero – secondo alcuni – miseramente fallito. Una visione che, superato il traumatico processo unitario, veniva consolidata da una letteratura celebrativa del potere in via di consolidamento. Una visione che, scavalcato l'Ottocento, si ripresenterà intatta, quando Antonio Lo Re darà alle stampe la sua «Capitanata triste». È l’idea di una realtà sociale ed economica che recenti studi, presi in seria considerazione da Angelo Massafra (che nelle analisi si avvale ampiamente degli studi di Cerrito1), hanno davvero contribuito a modificare, arricchendo – come lo stesso docente ha affermato – «le nostre conoscenze sull'argomento, innovando, talora profondamente, impostazione, metodi e temi di ricerca rispetto alla precedente tradizione storiografica e modificando non poco l'immagine della Capitanata fra età moderna e contemporanea che quella tradizione (e il senso comune storiografico che ne era scaturito) aveva costruito»2. Ed ecco che il Tavoliere – in particolare la sua area più fertile, compresa nella triangolazione Apricena, Bovino e foce dell'Ofanto –, la Capitanata, e il suo capoluogo, vengono rivisitati con l'ottica nuova di un territorio in movimento, capace di creare anche ricchezza necessaria al fine di autofinanziare le produzioni e di eseguire interventi migliorativi dei processi produttivi e di distribuzione, lasciando ampi margini aperti all'ascesa e alla mobilità sociale. Ed infatti, «con la sua fiera ed i suoi mercanti, con i suoi tribunali, con l'incessante via vai di carri carichi di cereali e di prodotti dell'allevamento, con i suoi capitali destinati a finanziare prestiti «alla voce» o crediti «al negozio», Foggia offriva, in questo senso, un'immagine di vitalità e di dinamismo che sarebbe errato considerare puramente illusoria»3.
Entrare nel merito, anche attraverso la ricorrenza della Giornata della Memoria, servirebbe a dare un contributo serio al dibattito sul nostro Mezzogiorno, a ridurre gli steccati che portano ad uno scontro sterile. Peraltro, come ci ricorda Lino Patruno sulle pagine della Gazzetta, e come gli studi citati dal prof. Russo dimostrano, la storia si basa sull’evoluzione delle conoscenze e qualsiasi forma di immobilismo dogmatico preteso può essere inteso solo come adattamento passivo alle più variegate e multiformi forme di decadentismo al potere. Michele Eugenio Di Carlo Socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia