di Tommaso Pio dell'Aquila
Nello sguardo rivolto ai paesi, ci sono elementi di pietismo. Se va bene di nostalgia, di fascino bucolico ma passeggero. Se va male di tracotanza che svela una superiorità canaglia. La retorica delle eccellenze si ripete stanca per addolcire la trasmutazione del paese in una bomboneria chiusa nella cristalleria del passato, a soffocare le forze vitali
nell'autoreferenzialismo. Gli stessi paesani, come dei militanti dello sconforto non vedono l'ora di scappare nelle città. Che poi è giusto che ognuno sia libero di muoversi e vivere dove vuole, scegliendo secondo i propri sogni e bisogni. Incondizionatamente. Nella realtà, però, il trasferimento nelle città è considerato una decisione scontata, vissuta spesso come una liberazione. Dobbiamo provare a creare questa sensazione anche per il movimento inverso. Stabilire un rapporto alla pari tra territori sarebbe rivoluzionario. Sui paesi si ammanta la retorica del trattenere. Non sono carceri, anche se purtroppo sono percepiti come tali. Le persone devono circolare, cucire rapporti, posare gli occhi li dove abitano le loro ambizioni, ma dobbiamo convincerli a concretizzare i loro desideri anche nei paesi. Questi possono essere luoghi dell'impensabile e della lentezza. Il ritorno non può essere solo un obbligo della tradizione. Un gesto d'affetto per i vecchi genitori. Il paese non deve trattenere, deve attrarre. Attrarre gli urbani, gli abitanti di altri paesi, stranieri, residenti temporanei, e non solo la varietà dei turisti. Il paese deve essere il luogo dell'accoglienza per eccellenza. Nei paesi non bisogna andare per trovare i morti, ma per tornare a vivere. L'Italia non deve salvare i paesi, come se assistesse ad un moribondo, elargendo piccoli finanziamenti che accontentano piccole visioni. Sono i paesi che devono salvare l'Italia. Le piccole cose sono essenziali ma è necessario organizzare un progetto ambizioso. Il modello economico non ha semplicemente emancipato i paesi e ingrassato le città. Non ha creato centri abitati anoressici e bulimici, o non solo. Gli squilibri fanno male a tutti. Non ci sono vincitori. Ci sono vinti. Diverse categorie di vinti. Ci sono distanze, disattenzioni, malformazioni di pensiero. Ma non ci sono dei vincitori, al massimo qualcuno che crede di esserlo. Chi è nato e vissuto in una megalopoli deve sapere che esiste un altro modo di vivere. Deve sapere che stare seduti su una panchina, alle due del pomeriggio di un giorno di primavera ad ascoltare il silenzio è un valore. Deve sapere che gestire la pazienza di scansare le vacche quando si incrociano per strada, è un valore. Questo modo di vivere centra con la poesia nella misura stessa in cui le rivolte centrano con la passione. La questione è invece sostanzialmente economica. Il valore di quel silenzio e di quelle vacche podoliche è economico. In milioni quel silenzio lo bramano. In milioni non hanno mai bevuto il latte di una mucca che si alimenta con le erbe dei prati. Tali valori possono essere promossi solo se esiste la consapevolezza che questi sono ricchezza.
La pandemia può accelerare l'esasperazione del sistema economico, oppure redimerlo. Lo spirito dell'economia è strettamente collegato al corpo dei paesi. Abbiamo certamente bisogno di un ministro della coesione territoriale competente, e per fortuna lo abbiamo. Ma anche un governo sensibile sarebbe inutile senza una presa di coscienza popolare. La rinascita delle aree marginali non deve chiudersi negli studi degli esperti ma diventare dibattito pubblico. Bisogna guardare ai paesi come si guarda al futuro. Servono soldi certo, ma anche la volontà di considerare queste risorse come un investimento per il bene dell'intera nazione. Ammodernare le strade di campagna o portare la connessione internet veloce nelle aeree interne non è uno spreco, ma il miglior utilizzo possibile dei fondi pubblici. In questi luoghi si produce, quindi si deve venire ad investire non solo a consumare. I paesi possono essere i luoghi della cura e dell'innovazione. La cura delle persone e dell'ambiente L'innovazione culturale e sociale. Si può immaginare un'agricoltura in simbiosi con la natura e le sue stagioni. In questo immaginario il cibo nutre il corpo e l'avvenire. La sanità può essere diffusa, vicino alle persone, le medicine fatte di aria, pennellate di colori e passeggiate nei boschi e gli ospedali l'ultima e inevitabile (anche per le distanze chilometriche) opzione. Diamo la possibilità alla gente di abitare in luoghi dove è difficile ammalare il corpo, ma anche lo spirito. Riabitare i paesi significa anche recuperare una dimensione umana che i paesi stanno perdendo e che le città ritrovano solo nell'ora dell'aperitivo. I paesi imitano le città quando non sono i loro dormitori. Si atteggiano a città in miniatura. Come un parco divertimenti. Sarebbe un grave errore trasformare i borghi in luoghi fighetti o alla moda. Meglio stare fermi a questo punto. Diamo spazio all'anima. Nei paesi di spazio ce n'è tanto ed ora è diventato un bene ancora più prezioso. Arricchiamo il valore di questi spazi con l'anima e non con il cemento. Le case sono più numerose delle persone e a volte hanno più storie da raccontare. Nessun muro dovrebbe essere alzato fino a quando non si rigenerano gli edifici esistenti. I paesi possono diventare luoghi di una nuova umanità. Se non lo diventano spariscono. Se spariscono, riapriremo ad un'occasione mancata, ad uno spreco di dolore e di buone intenzioni.
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