Diario breve di un anno alla vigilia di San Valentino
di Francesco A.P. Saggese
Era un giorno di fine febbraio di un anno fa.
La mia collega di lavoro venne chiamata dalla scuola elementare del suo paese, perché bisognava andare a prendere con urgenza i bambini. Il suo paese, a pochi chilometri da Codogno, era nella lista dei territori della prima zona rossa d’Italia; poi una serie di telefonate: «Ma che succede?», «Si tratta di precauzioni di qualche settimana», «Non potrai venire al lavoro».
Ai primi di marzo mi sono messo in fila davanti a un ferramenta, per comprare la prima mascherina, venduta fino a quel momento ai taglialegna, ai tinteggiatori, …
Le mimose sul Gargano si coloravano di luce gialla quando l’Italia veniva chiusa.
Anch’io correvo dentro al supermercato per comprare la farina, il lievito, il latte; sudavo tra le sue corsie quando incrociavo qualche altro carrello spinto a mano.
Dal mio ufficio vedevo correre impazzite su un pezzo di tangenziale le ambulanze, con il loro suono lamentoso, ininterrotto.
Stava arrivando la primavera, quando nel posto in cui parcheggiavo la mia auto, Samaritan’s Purse costruiva un ospedale da campo con terapia pre-intensiva e intensiva.
Le conferenze stampa della Protezione civile alle diciotto.
Ad aprile la Settimana Santa del mio paese non si sarebbe potuta svolgere, e al carico di malinconia che avrebbe accompagnato quei giorni, si aggiunse l’attesa che la spunta delle notifiche di whatsapp inviati ad A. si colorassero di azzurro.
Così non fu, perché il covid fu più feroce e vinse.
A maggio due germani vennero a nuotare sul telo ricoperto d’acqua piovana che copriva una piscina sotto casa. Le sirene delle ambulanze suonavano ancora ed erano forti gli applausi sui balconi, per il resto il silenzio asciutto della città ferma.
A giugno ero stanco, volevo scalare una montagna o passeggiare in un paese portoghese, ma potevo respirare, lo stesso respiro che mancava a migliaia di persone, lo stesso respiro che manca ancora.
A luglio rividi la mia collega, le mascherine non erano più obbligatorie all’aperto e si poteva uscire di casa, così, tra le precauzioni del caso, corsi ad abbracciare la mia famiglia a Vico; mia madre mi abbracciò forte.
Ad agosto il mare portò con sé una piccola speranza che forse le cose erano risolte, ma settembre ci fece capire che così non era. Le scuole d’Italia riaprivano tra la paura. Ad ottobre e novembre la curva saliva ancora.
Dicembre portò con sé un Natale nuovo, a tratti più autentico, ma più complesso da vivere; la scienza ci donò il vaccino.
E poi gennaio, divieti, mascherine, gel, isolamenti e la neve che indisturbata scendeva sulle montagne.
Arrivò un’altra volta febbraio e il covid mi portò un carico di dolore che ho stretto nel cuore e ci rimarrà per sempre e il cielo sa perché.
Stamane scrivo un messaggio ad Ignazio per chiedergli se hanno già allestito il maestoso trono di arance che fa da decoro a San Valentino. Mi risponde che lo farà questa sera insieme agli altri volenterosi.
Ed è come se si aprisse una finestra che non vuole aprirsi più, ed io vorrei essere lì, almeno per un attimo, almeno per un po’ ad intrecciare “marròcche” che daranno vita al maestoso trono, unico al mondo.
Poi domani vorrei sentire le campane della Chiesa Madre, che da oltre quattrocento anni in questo giorno si rincorrono una dietro l’altra, come sentivo da piccolo, quando puntuale arrivava la neve, quando la banda suonava per le strade dietro il Santo con l’indice puntato verso l’alto e il vento freddo che gonfiava gli stendardi delle confraternite.
Ma ora siamo qui con il carico sulle spalle di un anno che non avremmo mai voluto vivere; rimarremo così con le nostre bussole orientate verso il giorno del Patrono del paese e verso i nuovi giorni che arriveranno, illuminati dalla primavera, riscaldati dal suo tepore, travolti dalla sua rinascita.
Cremona, febbraio 2021
Foto di Pasquale D’Apolito
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