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Quel giorno di quarant'anni fa

Quel giorno di quarant'anni fa

di Francesco A.P. Saggese


C’erano le castagne, che stavano abbrustolendo su una vecchia stufa a legna smaltata di bianco, in una casa di campagna.

Era verso sera, quando a un tratto le castagne cominciarono a saltare, senza una direzione, come se fossero dei proiettili impazziti.

Anche i mobili della casa di mio nonno cominciarono a tremare forte, il tintinnio dei bicchieri nella cristalliera si fece intenso.

Mia madre, con mia sorella piccola in braccio, mi spinse d’impeto fuori casa.

La luce della corrente elettrica andò via per un attimo, poi si riaccese, per spegnersi velocemente, per poi riaccendersi ancora.

Una forza rumorosa generata nelle viscere della terra stava muovendo ogni cosa; come se la terra stessa avesse partorito nelle sue profondità un mostro a sette teste, pronto a ingoiare tutto. Un vento inatteso avvolse ogni cosa e si elevò furioso verso il cielo.

I cani di campagna come impazziti abbaiavano a qualcosa che non vedevano, ogni albero si scuoteva da solo come posseduto da un demone.

Non ho la precisa cognizione della durata temporale di questa forza, ma non fu un attimo.

Un signore di un casolare vicino gridava il nome di mio nonno e mio nonno il suo, come per dire "tutto bene?”.

Quando l’ira della terra si calmò rientrammo in casa. Una linea sulla tv in bianco e nero inseguiva se stessa, fino a che non comparve un’edizione straordinaria che ci parlò del terremoto nel Sud Italia.

Avevo sei anni ed era la prima volta che ne sentivo parlare.

I pensieri furono per la famiglia di mia zia nel beneventano.

Decenni dopo il loro paese, insieme a tanti altri, era ancora picchettato da pali e ponteggi, come corpi incurabili, feriti e fasciati.

Quella notte si portò via circa tremila vite: una ferita insanabile e ancora aperta.

Quella notte cancellò interi paesi e quello che rimase delle famiglie in gran parte si disperse nell’emorragia atavica dell’emigrazione.

Penso così a questo nostro Paese bello, fragile, insicuro, debole.

Pare una bolla di sapone.

Penso alla nostra incapacità di fare i conti con il territorio, alla saggezza messa da parte, all’improvvisazione che ancora c’è.

È sempre tutta colpa di una dannata fatalità che piomba assassina di notte o di giorno?

Quanta paura dobbiamo ancora avere quando dormiamo nei nostri letti, o quando i nostri figli sono a scuola?

Il problema è enorme, colossale, dovrebbe essere segnato bene nelle agende che contano, dovremmo per esempio sapere tutti se esiste un piano di emergenza e cosa fare.

Nei giorni che seguirono il 23 novembre del 1980 i giornali titolarono: «Il Sud sprofonda»,«I morti sono migliaia», «Fate presto».

Ci fu una grossa mobilitazione spontanea da parte dei cittadini e anche nel mio paese, Vico, qualcuno organizzò una raccolta di beni di prima necessità: in piazza san Domenico furono riempiti dei camion di coperte, materassi, vestiti, brandine.

In quei giorni, molte donne e uomini abbandonati a loro stessi, si caricarono sulle spalle la voglia di ricominciare, lo fecero al freddo tra macerie di pietra e di corpi che non si sapeva più dove seppellire.

Questo ricordo mi accompagna sempre nelle giornate di novembre e ho voluto scriverlo perché voglio che non si perda.

Quel giorno di quarant'anni fa la terra tremò, e in qualche modo parlò.

Abbiamo compreso fino in fondo il suo messaggio?




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