di Francesco A. P. Saggese
Il calendario segna la data del 31 marzo. Tra qualche giorno mi sarei messo in macchina per scendere a Vico, avrei salutato i colleghi, preso l’A14 e giù dritto fino al paese.
Penso a questo mentre i titoli delle notizie scorrono sulla mia TV.
Ho conosciuto subito gli effetti del virus, quando un mattino di fine febbraio una mia collega ha dovuto lasciare l’ufficio d’improvviso, per precipitarsi in una scuola di Casalpusterlengo, per prendere i suoi bimbi perché la scuola doveva inaspettatamente chiudere.
Poi la prima zona rossa a pochi chilometri da me fece il resto, e oggi a Cremona, la città in cui vivo, si registra ancora un numero molto alto di contagiati e di morti.
All’inizio il virus io non l’avevo capito, non avevo compreso che si sarebbe preso le nostre giornate, il nostro lavoro, un pomeriggio al cinema, un viaggio, una passeggiata, un tavolo al ristorante, …
Non avevo capito che il virus voleva prendersi la nostra vita, tutta la nostra vita, cosa che gli è crudelmente riuscita di fronte alle migliaia di vite spezzate in tutto il mondo.
Di fronte a loro, ai morti, perdi ogni pensiero, ogni parola, ogni capacità di ragionamento.
Allora la parole devi andarle a cercare sui fogli di carta dei libri dove sono distese, nelle gemme di un melograno che si trova sul balcone di casa tua, nella foto di un’infermiera che si è addormentata stanca davanti a un pc, con il suo camice e la sua mascherina.
Dicono che questa epidemia ci segnerà profondamente e che - forse - ci cambierà; ma io credo che qualcosa dentro di noi sia già cambiato e che la riflessione sull’esistenza sia già cominciata.
Siamo tutti legati, ognuno dipende dall’altro. Quello che succede a Wuhan, ai più una perfetta sconosciuta città cinese della provincia dell’Hubei, o in qualsiasi altra parte del mondo, ha inevitabilmente delle ripercussioni belle o brutte che siano sulla vita di ogni singolo individuo.
Chi crede di essere più forte, più grande, più giusto, ha capito ben poco di quello che sta succedendo.
Così oggi io vi scrivo in nome di questa uguaglianza e in nome di alcune parole che ho letto in questi giorni lunghi e complicati e che dicono: non sprecate questi giorni difficili.
Le ha pronunciate Jorge Mario Bergoglio.
Allora va bene Michele, ricominciamo di nuovo, mi unisco allo spirito di questa nuova pagina del nostro paese, a questa nuova avventura social.
Vico in questi giorni mi mancherà moltissimo, mi mancherà tutto ciò che sarebbe accaduto nelle prossime giornate e che ci avrebbe portato al giorno più atteso dell’anno.
Dobbiamo ripartire dalla capacità di fare tesoro della nostra identità, dalla capacità di non sprecare quello che di buono è stato fatto finora, dalla valorizzazione di tutte le energie positive che ci sono in giro; raccogliere tutto il meglio che c’è.
Mi unisco da qui, da queste mura lontane, mi unisco a tutti voi, a tutti quelli che verranno, agli amici che si sono messi a disposizione da ogni parte di questo pianeta, ognuno con il suo messaggio, ognuno con il suo sorriso, ognuno con la sua speranza.
Lo dobbiamo a chi non c’è più, a chi sta lottando, a chi sta operando, a chi ha vinto, a chi è solo, a chi ha perso il lavoro, a chi non ha denaro, ai bambini che stanno pagando un prezzo altissimo, e a chi un bambino lo porta in grembo; lo dobbiamo a chi è innamorato del nostro paese, a chi ha un’attività, ai turisti che torneranno.
Lo dobbiamo a coloro che in qualunque modo stanno provando a tenere in vita questo Paese a forma di stivale, dove c’è un puntino che ci sta a cuore e che si chiama Vico del Gargano.
Dare forza a chi non ne ha e ancora più energia a chi è già avanti.
Dobbiamo diventare come un albero.
Che come scrisse il poeta è l’esplosione lentissima di un seme.
Un seme che è già germogliato.
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