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I racconti: il mestiere della lavandaia


In tempi assai remoti, quando nelle case non c’era l’acqua corrente, si era costretti ad attingerla presso le sorgenti (Canneto, Asciatizz) o alla fontana di S. Maria che era la più vicina a Vico. Nelle abitazioni dell’epoca vi erano le cisterne, dove, con un sistema di tubi collegati ai tetti, si faceva fluire l’acqua piovana utilizzata per l’igiene quotidiana. In quel periodo, in cui non era semplice guadagnarsi da vivere, coloro i quali possedevano asini o muli, trasportavano l’acqua nei barili detti “VARRIL”, vendendola a quelle famiglie che la richiedevano. Essa veniva conservata in enormi giare (i sciarr) che potevano contenerne una buona quantità. Un altro mestiere alquanto impegnativo e gravoso era quello delle lavandaie che, sia d’inverno sia d’estate, svolgevano questo duro lavoro per contribuire al sostentamento del loro nucleo familiare. Esse infatti la sera facevano il giro per le case delle famiglie raccogliendo i panni sporchi. La mattina si alzavano presto prima che spuntasse il giorno, per potersi assicurare il posto migliore per il lavoro. Durante il tragitto fino alla fontana di S. Maria, queste lavandaie vestite con gonnelloni lunghi, detti “sciucchi”, colorati o scuri e con i “tuccatin”, si facevano buona compagnia, intonando canti popolari o raccontando delle storie: ‘’Cummar Rusì, cià truvate u zit fijjt! Terè, ka fa, l’aia accid! Ancur n fà trdic ann! Dalla a bndziun, e n fa storjj. L’aiackiarut, tutt a dot! Mejjaccuscì. A frkatura gross, l’è kappat jj! U, Madonna sant! E mò k si akkapat? Tenk, nu marit mbriakun; d’atra sir nc’ putiv arrtrà pà tropp mbriakezz! Jè sdruppat p tutti i skal! Terè. Povr a te! Mo sta culuquat e n’c po’ mov pi dlur! Qualkè jorn li spaccà a cap ku laghnatur! Ka fà a suppurtà.

Così tra canti e chiacchiere varie finalmente si arrivava alla fontana dove, le lavandaie, si affrettavano a collocare “i cruedd” con la biancheria sporca vicino alla chianca prescelta, un pezzo grosso di pietra piatta e ben levigata per i troppi lavaggi. Era tutto un allegro vociare misto allo scorrere dell’acqua, al rumore dei panni strofinati, sbattuti sulla pietra. A volte scoppiavano furibondi litigi, perché qualcuna sosteneva che quel posto era suo in quanto l’aveva ereditato da sua nonna; arrivavano persino ad accapigliarsi. Per lavare i panni c’era tutto un procedimento che bisognava rispettare affinché il risultato finale fosse soddisfacente. Il primo giorno si procedeva con il prelavaggio: la biancheria dopo essere stata accuratamente insaponata e messa a “dummdà”, cioè fatto l’ammollo, essa veniva strizzata ben bene, messa nei cesti e riportata a Vico. La lavandaia, per il trasporto, collocava sulla propria testa uno straccio attorcigliato per sistemare a “cruedd” con il carico di biancheria. Una volta giunta a casa, i panni venivano sistemati in una tinozza di legno e sopra un panno ruvido detto “culatur”, si spargeva della cenere presa nei forni poichè la legna messa a bruciare, essendo più leggera, produceva una cenere che non sporcava i panni. Successivamente si versava dell’acqua bollente per dieci volte, in modo che colando sui panni e mescolandosi alla cenere si creava una “liscjia”, simile al detersivo per lavare la biancheria. Il secondo giorno, i panni strizzati accuratamente e rimessi nelle “cruedd”, venivano riportati alla fontana, o al fiume per sciacquarli, e poi stenderli sui prati per farli asciugare. Riportare a Vico tutta la biancheria asciutta, era altrettanto gravoso, poiché le lavandaie, dopo averla accuratamente ripiegata, formavano delle grosse “fascine” in un panno grosso, collocandole sulla testa. La sera, dopo una cena frugale, i panni venivano selezionati e distribuiti alle famiglie che ricompensavano le donne, dando loro, il denaro pattuito.


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