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SULLA MIETITURA E LA PESATURA DEL GRANO NEL GARGANO


NOTE PRELIMINARI Il presente scritto, lungi dall’essere una ricerca scientifica, è il risultato di note personali che si basano su ricordi di gioventù e confermate dalla raccolta di notizie sul territorio e da materiale bibliografico recuperato soprattutto in rete. Non mancano interviste presso anziani, documentazione cartacea inviatami da amici e conoscenti sparsi per il mondo, nonché ricerche in archivi fotografici pubblici e privati. Il riferimento linguistico dialettale è quello del mio paese d’origine (Vico del Gargano), ma gli usi descritti sono pressoché estensibili a tutti i comuni del Gargano nord. Poiché questo lavoro è collegato ad una più ampia ricerca sul dialetto vichese, sono indicati (tra parentesi) i relativi termini dialettali. Poiché si tratta di dialetto e la translitterazione dei suoni non è assolutamente facile senza l’uso dell’alfabeto fonetico (IPA) si è cercato di fare una semplificazione che possa permettere alla maggior parte delle persone un’agevole lettura. Si è ecercato di ridurre al massimo l’uso delle vocali accentate e di simboli particolari, cercando di attingere alle lettere tipiche dell’alfabeto italiano ed adattandole al nostro scopo. Pertanto le principali regole per leggere i termini dialettali riportati nell’articolo sono le seguenti:

Vocali 7 vocali di base (come l’italiano): a, è (e aperta), é (e chiusa), i, ò (o aperta) ó (o chiusa), u. 1 vocale neutra: in glottologia ? (schwa) la vocale muta, ma presente che indichiamo con e. 1 vocale dittonghizzata: æ (vocale anteriore quasi aperta non arrotondata) a evolvente alla e aperta allungata. 2 dittonghi attivi: oi e au tipici del dialetto antico (cafone), evolventi in i e u del dialetto moderno (gentile). 2 semivocali: j (la i di ieri) e û (la w di wood). La vocale, sia singola che in dittongo, in sillaba piana (la penultima sillaba della parola) assume sempre un suon allungato, pari a due volte il suono della sillaba nel dialetto cafone o (cantilenato) circa 1,5 volte nel dialetto gentile.

Consonanti Occlusive sorde e sonore esplosive: chj, ghj e cchj, gghj Raddoppio fonosintattico: tendenza a raddoppiare le bilabiali, le fricative e le occlusive Gruppo consonantico serbo-croato sck formato da š e ch Gutturalizzazione dell’h aspirata in inizio parola: g Articolazioni doppie: z (ts = affricata alveolare sorda) e z (dz affricata alveolare sonora)

SULLA MIETITURA E LA PESATURA DEL GRANO NEL GARGANO. Se la principale fonte alimentare del popolo italico è sempre stato il pane, per quello garganico il pane rappresentava la base imprescindibile. L’elaborazione di una miriade di ricette a base di questo elemento ne è la conferma concreta (ricette, peraltro, che tenevano conto del diverso grado di indurimento della pagnotta e della stagione). Per cui la coltivazione del grano (ma di tutti i cereali in genere) era diffusissima e spinta in ogni fazzoletto di terra che potesse garantirne la coltura. Non era raro fino agli anni ’50 del secolo scorso, vedere “pezze di grano” coltivate su terreni ripidi e scoscesi, inframezzati da grossi sassi sporgenti (i maurge) in ogni angolo del territorio garganico: dal mare fino alla Foresta Umbra. Tali terreni erano impossibili per qualunque forma di meccanizzazione e quindi venivano ancora lavorate a mano dissodando il terreno con la zappa. Ovviamente più i terreni erano ampi e pianeggianti, maggiore era l’ausilio degli animali da tiro per la lavorazione dei terreni, dall’asino ai muli, fino ai più specializzati buoi. Ed a partire dalla primavera fino ai principi di dell’estate, i versanti del Gargano si mostravano come un’enorme puzzle costituito da un insieme di appezzamenti dalle dimensioni più varie che cambiavano di colore /dal verde primaverile al giallo oro estivo) ed ondeggiavano al vento come tanti piccoli “mari”. Chiunque avesse un pezzo di terra , anche minuscolo, seminava questo prezioso cerale e, se proprio il terreno non era sufficiente per coltivarci il grano per fare il pane (grani teneri) almeno una misura (1) dove coltivarci il prezioso “saragolla”, u græne di maccaraune. Giusto per curiosità, il Saragolla o Duro di Puglia era un grano molto diffuso, dal particolare colore scuro che produceva una farina più grigia, meno bella, ma eccezionale per la panificazione: da sempre coltivata in Puglia, Basilicata e Abruzzo, derivava da quel grano khorasan che oggi sembra quasi miracoloso e viene venduto a perso d’oro col nome commerciale di kamut! Ma questa è un’altra storia. Un tempo, quindi, arrivata la fine di giugno, quando i cereali (grano, avena e orzo) arrivavano a maturazione, cominciava la mietitura e siccome le mietitrebbie nemmeno si immaginavano e le mietitrici meccaniche non erano ancora arrivate sul Gargano (ovviamente per i piccoli contadini, perché i “signori latifondisti”, come Don Cecchino Della Bella, avevano già a disposizione delle mietitrici meccaniche trainate da buoi), ovviamente, si mietevano a mano. Il contadino, attrezzato con la falce (a fàuce) e la cote (a ‘ffelatùre), debitamente protetto con i ditali di canna alla mano di raccolta (i cannèdde), ben riparato con la maglia di lana cruda (a magghje de læne) e con il fazzolettone a bandana (ttuccatoìne) sotto il cappello, per proteggersi dal sudore, cominciava la sua giornata di lavoro. Tenendo gli steli del grano (o dell’avena o dell’orzo) con la mano protetta dai cannelli, tagliava con la falce alla base delle piante, ogni paio di falciate, quel grano che riusciva a tenere in mano lo legava a mazzetto, usando alcuni steli del grano che componevano il mazzetto stesso. Quel mazzetto (jèrmete) rimaneva appoggiato per terra ed egli continuava il suo lavoro di mietitura. Ogni tanto, si fermava. Un buon sorso d’acqua fresca dal cìcino di terracotta (u cicene) e ritornava sui suoi passi. Raccoglieva una decina di fascetti e li legava insieme, sempre usando gli steli dello stesso cereale che stava mietendo. La chiusura della legatura avveniva attorcigliando le teste (i spoiche) e la base degli steli, riuniti in una sorta di corda naturale. Ne risultavano i “mannocchi” (manaucchje), un fascio grande tanto quanto poteva essere abbracciato, che venivano avvicinati uno all’altro e venivano accatastati con ordine (arregghjete) in gruppi di 10, in modo che, successivamente potevano essere caricati sull’asino o sul mulo e portati all’aia. Questa operazione era chiamata “cerevà” e prendeva il nome da “u cerevataure”. Quest’ultimo era un attrezzo molto molto semplice, costituito da due assi di legno di orniello (lina d’ornë) legati all’estremità con pezzi di corda in modo che potessero incastrarti tra la parte anteriore (a coreve) del basto (a varde) e la parte posteriore, in modo da facilitare l’operazione di carico e trasporto dei mannocchi (di fatto una regghje rappresentava una soma, cioè un carico completo). A Vico del Gargano, gli elementi chiave che segnavano il passaggio dei cereali dal campo all’aia erano i seguenti: Jermete(o Mæne): mannella, mannello: quantitativo di pianta di cerale maturo (stelo e spiga insieme) capace di essere tenuta in una mano del mietitore. Manucchje: Mannocchia, mannocchio (lat. maniculum) fascetto costituito da 8-10 mannelli di cerali legati insieme tra di loro. Regghje: cumulo ordinato costituito da un numero di 10 mannocchi (anche se poteva variare da 10 a 12 a seconda della capacità di carico dell’animale da soma utilizzato, in genere asino o mulo) raccolti nel campo e concentrati nel punto di carico (prob. dal lat. regere: reggere, governare da cui si origina regimentum: reggimento, maniera di governare, il termine è stato usato per indicare un certo numero di bande armate riunite in un solo corpo, sotto il governo di un solo maestro di campo). Pegnùne: biche formate da manocchi accatastati, sia in forma di grosse pigne che in forma di casetta con doppio spiovente. Le biche erano formate da tutti i mannocchi di un singolo proprietario in attesa della trebbiatura. All’aia pubblica, con le prime trebbie a motore, tutti mannocchi di ogni singolo proprietario venivano indicati come “partoite” ossia partita. Ogni “partite” poteva essere costituito da tanti “pegnùne” quanti erano i tipi di cereali da trebbiare (per es. uno di grano, uno di avena, uno di orzo). Intorno al paese di Vico erano presenti numerose aie permanenti (areje e arejole), alcune presenti ai limitari del paese ancora poco decenni fa ed utilizzate fino agli anni ’70 (dd’areje da Bella Vuncenze), alte in disuso, ma ben visibili ancora adesso (dd’areje de Canciàrre), altre ormai scomparse, ma che permangono come toponimi o ad indicare il quartiere che lì e stato successivamente costruito (il mio quartiere è “d’areje de Masce”, cioè l’aia di Mascis). Tali aie erano realizzate spesso sulla sommità di piccolo rialzo (tuppe) ed erano di forma circolare e con andamento pianeggiante; a volte, per renderle pianeggianti, venivano costruiti dei muri a secco di contenimento. Con una superficie che variava dai 70 ai 100 metri quadri, erano pavimentate con lastre di pietra locale “ i chjanchétte” e delimitate da un cordolo di rafforzo realizzato con le stesse chjanchette, però infilzate nel terreno per il lato stretto. Quando, per trebbiare il grano, il tragitto che si doveva fare dal campo all’aia era troppo lungo, si realizzava un’aia temporanea “d’arjie” nelle vicinanze del campo mietuto o, meglio ancora, in una posizione utile a servire più campi mietuti, anche se di diversi proprietari. In questi casi andava bene una qualunque area pianeggiante, purché ben ventilata. Mentre i “ualéne cerevavene” gli altri preparavano l’aia: identificato il posto si ripuliva da tutte le erbacce ed eventuali stoppie (ce streppuniéve), dopodiché si bagnava il terreno ripulito per tutta la superficie che doveva fare da aia, si ricopriva tutto di abbondante paglia e la si schiacciava facendoci “girare” sopra gli asini, i muli o “le giumente”. In questo modo la terra bagnata si impastava con la paglia, e con ripetuti passaggi di bagnatura e passaggio degli animali - a volte anche con l’ausilio dei bambini che, calpestando a piedi nudi, contribuivano ad “allisciare” il piano dell’aia – si realizzava, una volta asciugato, un piano di lavoro duro, liscio e pulito (dd’astreche) dove poter agevolmente trebbiare il grano. Pronta l’aia, nelle prime ore del mattino – quelle più calde in modo da perdere velocemente l’umidità accumulata durante la notte – si stendevano i manocchi: venivano sciolti ed allargati con le spighe verso il centro dell’aia (c’attestavene) in cerchi concentrici, fino quasi al centro dell’aia. Per far si che le spighe rimanessero sempre sopra la paglia, si disponevano a partire dal centro verso l’esterno, appoggiando le spighe del cerchio esterno sulla paglia del centro interno. Completata la preparazione dei cereali sull’aia si iniziava la trebbiatura. “Trebbiare” in dialetto si dice: “pesà” e deriva, probabilmente, dal “pèsele” che era una pietra larga e piatta, di forma rettangolare irregolare, con un foro nel lato corto a cui veniva fissata una catena o una corda che attraverso “u velanzoine” (un bastone di legno con un gancio centrale che si agganciava al pésele, mentre ai bordi del legno erano legate delle cordicelle a loro volta collegate al collare, o pettorale del quadrupede che la tirava) veniva trascinata sulle spighe al fine di liberare il grano o l’orzo (u græne o d’oreje) dalla pula (a cæme). Per guidare i quadrupedi (solitamente giumente o muli, ma anche asini) c’era il cosiddetto “arejere” che, dopo aver fissato sulla bocca della bestia “u mussæle” (una sorta di museruola perché non mangiasse le spighe) li faceva andare con movimento circolare su tutta l’aia rimando al centro della stessa, facendo schioccare ritmicamente la frusta (u scriætë). Come se fosse (e lo era, infatti) il perno attorno al quale gli animali ci muovevano con movimento circolare, l’ arejere, tenendo per la lunga cavezza (a capézze) l’animale (o gli animali, legati affiancati e sfalsati tra di loro) seguiva costantemente il loro movimento e, all’occorrenza, allungava o raccorciava la cavezza, affinché gli animali potessero calpestare per bene tutte le spighe del cereale presente sull’aia. Secondo la sua esperienza, decideva anche quando invertire i giri e quando far riposare gli animali prima che si “mbriacavene” e cioè, prima che – a forza di girare in tondo – perdessero l’equilibrio. Quando l’arejere giudicava che il cereale era ben separato dalle spighe “scapuléve”, cioè smetteva di far girare gli animali e li faceva uscire dall’aia! A questo punto si cominciava a “muntulìà”, operazione che si faceva col vento alle spalle: in pratica con un’asta biforcuta (a fòrche) si afferrava la paglia dall’aia e la si tirava in aria, l’intento era quello di separare la paglia dal grano ed infatti la paglia, che è più leggera, volava lontano mentre il grano, più pesante, ricadeva sull’aia. Separata il grosso della paglia dal grano, rimanevano per terra ancora molte spighe con i chicchi attaccati, allora rientrava in gioco l’ariere, ma questa volta con il pesolo attaccato al quadrupede di turno. Questa volta non c’era bisogno di procedere al trotto, ma bastava che l’animale andasse al passo, trainando il pesolo, in modo che questo (che poteva pesare anche una trentina di chili) passando sulle spighe, staccasse completamente i chicchi dalla pula. A completamento di questa operazione, uscito per l’ultima volta l’ariere con l’animale, rientravano a “ventoliare”, ma stavolta non si usava più la forca, ma il badile di legno (a pælë de legæme). Con lo stesso movimento che prima aveva permesso di separare la paglia dalla granella e dalle spighe, con le pale, grazie all’aiuto del vento, si separava il cereale dalla pula e dai rimasugli della paglia e delle reste (i gréste). Quando si faceva questa operazione era d’obbligo indossare, oltre al cappello di paglia, il tipico fazzolettone di cotone (bianco e blu o bianco e rosso) avvolto attorno al collo per impedire alle pagliuzze di infilarsi nella camicia. Solitamente l’aia era collocata sulla parte più elevata del terreno a disposizione, in quella parte cioè più esposta al vento e possibilmente libera da alberi. Ma se non c’era vento? E allora si ricorreva al cernetùre, grosso setaccio con il fondo in metallo, dove con l’aiuto delle mani, si riusciva a separare la granella dalle impurità. Ma intorno, si dava una mano con i farnere, setacci più piccoli, ma che svolgevano la stessa funzione! La paglia si raccoglieva e si trasportava nei fienili e nelle stalle con l’aiuto di reti di corda a maglia larga. La granella, raccolta nei sacchi di canapa (pile de cæne) si trasportava nelle case contadine, in apposite stanze ben arieggiate e asciutte, dove si conservava all’interno di grossi sacchi di cotone grezzo, le “ràchene”. Da lì, sarebbe cominciata un’altra storia, dopo essere passato per il mulino e diventata farina, sarebbe iniziata la sua trasformazione nel principale degli alimenti, in quell’alimento che per generazioni ha segnato le sorti di moltitudini di gente che, spesso, ha lavorato al di sopra di ogni umana immaginazione, quasi in stato di schiavitù, per averne un pezzo: il pane!


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