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San Menaio: gli imperdibili anni (seguito)

San Menaio: gli imperdibili anni (seguito)

di Giuseppe Maratea

San Menaio, come tutto il Sud d’Italia, soffriva di annose arretratezze e le conquiste e i vantaggi della modernità, ammesso che fossero tali, erano ancora praticamente sconosciuti.

Allo spirare degli anni ’40, era un azzardo camminare per la maggior parte delle strade carrarecce e dei viottoli di campagna, la mancanza di acqua potabile era endemica, l’illuminazione un lusso per poche strade centrali, non c’erano fogne né bagni pubblici, se non alla Stazione Ferroviaria. Il telefono? Un oggetto da fantascienza. Ne disponevano solo i Della Bella a “Capotondo” e i Delli Muti a “Villa Nunzia”. All’hotel “Bellariva” fu attivato molto più tardi.

In compenso, a pochi metri dalla “Torre dei Preposti” (una delle arcigne venticinque torri seicentesche, realizzate tra la Capitanata e il Molise, per la difesa dagli assalti dei Turchi e, in seguito, per il controllo marittimo e del contrabbando) c’era il posto telefonico pubblico.

Le intercettazioni, allora, non esistevano, ma bastava disporsi in posizione strategica, in attesa del proprio turno, nel locale affidato ad Anna Maria Mastromatteo che, impietosa, interrompeva il loquace telefonista, chiedendo invariabilmente “raddoppia?”, perché la privacy andasse a farsi benedire e si sapesse tutto di tutti.

Bisognò arrivare al 1958, per il potenziamento della rete telefonica, fino a quel momento a un filo. E fu una fortuna, perché non se ne poteva più dei continui blackouts che, in piena stagione, tagliavano San Menaio fuori dal mondo. A pochi passi dall’ufficio telefonico, abitava, in una piccola casa sul mare, l’unico vigile di San Menaio, Ascanio di Lalla, del quale è rimasta famosa la concitata telefonata di allarme fatta al Comune di Vico, dinanzi alla basita Anna Maria, a seguito di una violenta mareggiata che aveva colpito quel tratto di riviera: “Ascanio, vede acqua rossa a mare”. Fu esattamente questa la laconica comunicazione: un modello di economia espressiva.

La cosa, quando si riseppe, provocò molta ilarità. Epperò, a ben pensarci, si trattò di un esempio di Protezione civile casereccia, ma tempestiva, efficiente, e, soprattutto, a costo zero.

Arrivando da Rodi, c’era la casa dei Maselli (lì fu, alla fine dell’Ottocento, concepito da Antonio Maselli il romanzo storico “Scene garganiche ovvero La figlia di Maso” sul modello di quello manzoniano già famoso) e, di fronte, nel “baraccone” dei Mastrovalerio, il commercio agrumario con Luigi Pirandello, parente dell’omonimo commediografo “Premio Nobel”, con Baller, con Gargiulo e, poi, appunto, con Saverio Mastrovalerio, aveva conosciuto il suo momento magico: venivano dalla Sicilia carovane di bellissime ragazze, specializzate nell’arte di avvolgere i frutti nella carta velina, decorandoli di figurine litografiche. Così agghindati, gli agrumi della “conca d’oro” garganica partivano su trabaccoli stracarichi alla volta di Pescara, Ancona, Trieste, Spalato…

Il piroscafo per le Tremiti (e, poi, la “daunia”, con enfasi chiamata motonave), per imbarcare i passeggeri che lo raggiungevano sulla barca di Agostino dell’Aquila, appartenente a una storica famiglia di pescatori di San Menaio, si fermava al largo: si partiva per le Isole Tremiti pieni di entusiasmo, qualcuno con il cannocchiale a tracolla.

Appena al largo il piroscafo incominciava a rullare a beccheggiare, e quasi tutti i visi dei viaggiatori diventavano color cadaverico. D’improvviso, per fortuna, apparivano le “Diomedee”, il mare si placava, il sole scacciava le nubi, tutti i mali passavano come d’incanto.

Nelle serate d’inverno, due avvenimenti che, a distanza di una manciata di anni, avevano interrotto il monotono tran tran quotidiano di San Menaio, continuavano a tenere banco tra gli appassionati cultori delle rievocazioni, ormai quasi tutti di indiscutibile fede repubblicana e democratica: il privilegio che ebbe la famiglia Della Bella dell’“augusta” visita a “Capotondo” (una dimora dalle linee semplici e severe, quasi irraggiungibile) di Umberto di Savoia, al quale a pranzo furono serviti brodo “Diomede”, dentice all’ammiraglia, millefoglie all’italiana, pollanche allo spiedo, insalata primaverile, timballo ghiacciato “Gargano”, frutta.

L’elegante “menù” (tutti gli ingredienti rigorosamente a chilometro zero, si direbbe oggi) fu, in segno di totale apprezzamento, sottoscritto dal Principe: era il 29 aprile 1923.



E ci si passava ancora di mano – tra i pochi privilegiati – le uniche copie – custodite gelosamente da Francesco Delli Muti – del “Messaggero” e del “Popolo d’Italia” con gli articoli degli “inviati speciali” Francesco Maratea e Silvio Petrucci, entrambi garganici. Gli articoli occupavano parte della prima pagina e dilagavano poi nell’interno con la descrizione ricca di particolari dell’inaugurazione in pompa magna, tra una folla entusiasta e festante, nella stazione di Rodi, della Ferrovia Garganica, alla presenza del Ministro Costanzo Ciano: era il 27 ottobre del 1931.

La Ferrovia, costruita dall’impresa Cidonio, fu realizzata in appena due anni (oggi si griderebbe al miracolo). Madrina della manifestazione fu Maddalena Ungaro, che infranse contro la locomotiva la rituale bottiglia di spumante. Maddalena era sorella di don Filippo, il celebre penalista, protagonista dei processi più intricati e avvincenti, che, quando sopravveniva da Roma, si riposava nella quiete della villa di famiglia a “Valle delle Noci”.

Filippo Ungaro, giornalista, da giovane, al “Mattino”, al “Giornale d’Italia”, al “Messaggero”, eletto poi parlamentare per quattro legislature, era stato il convinto e tenace “apostolo” della Ferrovia garganica, prima di lui a lungo uno dei tanti progetti nati dalla speculazione elettorale e sfumati il giorno dopo le elezioni.

Il bel mondo, ormai aveva scelto San Menaio come capitale della mondanità e come esclusivo parterre de rois.

Tra i vip, che non avevano una villa o una casa a San Menaio, la scelta cadeva quasi obbligatoriamente sul “Bellariva” dei fratelli Nicola e Francesco Delli Muti (il nome “Bellariva” non piacque a Michele Vocino; gli sembrava troppo comune); non c’era viveur della café-society foggiana che non ci avesse alloggiato.

Nell’hotel – dovuto alla felice intuizione dei fratelli Delli Muti, autentici pionieri del turismo garganico - i banchetti si susseguivano ai galà, in abito lungo, corbeilles di fiori di tutti i colori addobbavano salette e tavoli da pranzo e la decorazione delle pietanze era considerata importante quanto il loro sapore (a volte addirittura di più), e Iole, la bella e luminescente direttrice per conto dell’ACI (la proprietà, intanto, era passata di mano) diventava spesso destinataria di avances lecite e meno lecite.

Al “Bellariva”, due o tre camere restavano sempre libere per le “alte personalità”, che potevano arrivare improvvisamente. C’era, cliente abituale, l’ex gerarca convertitosi al partito di Togliatti che, supponendo di non essere ascoltato, canticchiava a bassa voce, nostalgico del “buon” tempo andato “Giovinezza giovinezza/Bellariva di bellezza”. Ma appena incocciava in qualche ospite dell’albergo, alfiere dei tempi nuovi, con voce stentorea, intonava il ritornello “Primo maggio di riscossa/vieni tu, bandiera rossa”.

Fra gli ospiti più importanti, naturalmente, non c’era uno che pagasse subito: i più lasciavano “segnato” in conto e pagavano a fine stagione (qualcuno “se ne dimenticava” e l’anno successivo cambiava disinvoltamente albergo e località). E capitava anche che qualche cliente, scontento del conto, non si limitasse a protestare; si rivolgeva direttamente al Prefetto, informandolo, “per il buon nome di San Menaio”, dei prezzi esosi che si praticavano nell’albergo.



D’estate le occasioni di divertimento non mancavano: la sera ci si sparpagliava nelle ville, al “Bellariva”, da “Miki”, alla “terrazza” della Stazione ferroviaria. A due passi dalla Stazione, sul “Lungomare Maria José”, addossato all’emporio delle “zitellissime” peschiciane tre sorelle Quaglia, a lungo una vera e propria istituzione per San Menaio, Miki (Michele De Felice), fascistissimo, con la sua cucina celebrata dall’avvocato Leonardo (“Nardino”) De Meo, colto e fine gourmet, ghiottone errante alla scoperta di osterie sconosciute e di cibi perduti (un mix degli odierni Paolini, Vizzari e Scarpelli), stimolava tutti e cinque i sensi contemporaneamente, con accostamenti insoliti di sapori, suoni, odori colori e sensazioni tattili: promuoveva l’ottimismo a tavola, continuando a sostituire l’antifascista pastasciutta, che rende pigri, con il patriottico e più “politicamente corretto” riso; i tempi non erano ancora maturi per il cambiamento.

Un’eccezione veniva fatta per il “Timballo tricolore”, uno sformato di maccheroni con la forma e il colore della bandiera italiana: il bianco della pasta e della besciamella, il rosso del ragù, il verde delle foglie di basilico, aggiunte, per decorazione, dopo la cottura.

La moglie, Vincenzella Raspone, lo aiutava ai fornelli. Il ristorante, rilevato da Michele De Rosa, nella sua semplicità, era considerato tra i migliori della provincia ed era famoso per la zuppa di pesce e il fritto di triglie, calamari e gamberi che don Michele, con voce flautata e modi da incantatore, proponeva ai clienti: il Maresciallo della Marina, Michele D’Anelli e l’insegnante spezzino Vito Vigliaroli, ospiti fissi di robusto appetito non si lasciavano mai scappare il suggerimento.

Al di là delle infinite chiacchiere liquidate seccamente, marito e moglie trovavano uno nell’altra il proprio completamento, come se nella loro affinità avessero realizzato l’incontro vagheggiato da Platone tra le due metà della stessa pera.

Alla “Terrazza” della Stazione ferroviaria, invece, illuminata a giorno, gestita insieme con “Villa Di Lalla”, prima che approdassero al “Camping Internazionale” da Teresa e dall’Incontenibile marito Leonardo di Monte, si faceva festa sino al mattino, e si mangiava una pizza che vantava un segreto nell’impasto di acqua e farina, Leonardo, invece, a “Villa di Lalla” aveva sperimentato un piatto nuovo, fresco e leggero, costituito da trance di “fiordilatte” e da fette di pomodoro condito con olio, sale e foglie di basilico e origano; una “caprese” garganica.

Ma, con la sopravvenuta “ferrovietta”, la quiete e i ritmi della “regina” delle località balneari pugliesi vennero scossi da chi aveva scoperto il piacere del viaggio e la gita domenicale al mare rappresentava una conquista sociale; erano i primi anni Cinquanta. (segue)


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