Un po’ di amore, un po’ di storia e qualche leggenda
Racconto a puntate
di Giuseppe Maratea
Vico del Gargano è salubre centro che respira aria salsa e aria del bosco “Umbra” (ma perché “Umbra? Gli etimologi si sono divisi il campo: chi la fa derivare da “ab-umbra” per le molteplici spelonche in cui si sarebbero rifugiati i Silvini di cui parla Plinio, chi da “umbra” nel senso latino di paura, circospezione, sospetto, chi da “ab imbre” che significa pioggia, allusione al “Gran Diluvio”, giacché il Gargano si candida da tempo a “verace” sede dell’arca di Noè.
Ma, tagliando corto nelle congetture, converrà accettare la locuzione dialettale “umbra” che sta per “ombra” (e nessuno ci accuserà di scempio).
Nel bosco il giorno muore all’improvviso, senza la lunga agonia del tramonto: gli uccelli dormono, ormai, sicuri negli aerei nidi di frasche, i caprioli sognano i pascoli verdi dai loro rifugi tra le foglie, la luna ha riverberi magnifici, le divinità arboree danno inizio alla festa notturna.
In quel momento sembra di sentire un canto dolcissimo. Certo è un’allucinazione, ma nella Foresta Umbra i prodigi non sono impossibili; il canto che pare di udire può anche essere la voce della “driade”, intuita e non incontrata nel folto del bosco, che dà la buonanotte alla sua maniera, dopo aver regalato un plenilunio.
L’inizio dell’era moderna di Vico è strettamente legato alle vicende della famiglia Caracciolo e del castello di vecchia struttura normanna, poi riattato da Federico II e dagli Aragonesi.
Dopo che Ferdinando II d’Aragona, incapace di salvare il trono, si rifugia a Ischia, senza neppure tentare di opporsi a Carlo VIII, è quasi un gioco da salotto accaparrarsi un feudo in qualche parte del Reame.
Galeazzo Caracciolo, che aveva conseguito molti meriti nel 1480 a Otranto contro i Turchi, può ottenere il feudo di Vico e metà della rendita del lago di Varano per cinquecento ducati; una cifra – assicurano gli economisti – irrisoria anche in epoche di sbando politico e di liquidazioni patrimoniali.
Il figlio di Galeazzo, Colantonio Caracciolo, viene fatto marchese nel luglio del 1531 e – rammenta Gennaro Scaramuzzo – “godeva di tale prestigio da essere tra i pochi, nel regno di Napoli, cui era consentito di tenere il capo coperto davanti all’imperatore Carlo V, come un nobile di Spagna”.
A Colantonio Caracciolo si deve l’edificazione del Convento dei Cappuccini a partire dal 1556, dopo la pestilenza dei mesi precedenti e a dispetto della carestia che colpirà Vico nel 1559 e di un’invasione di bruchi che funesterà il centro abitato nel 1562.
La collina su cui sorge il Convento è denominata “la coppa dei sette venti”, mentre il magnifico leccio – baluardo d’ombra sognato nei meriggi d’agosto – risale al 1600: opera di un frate, Fra’ Nicola da Vico, sensibile precursore di deterrenti ecologici.
Ma non si trascuri l’interno del Convento, il Chiostro e l’assorta “Madonna degli Angeli” di Andrea Vaccaro.
E, sempre a proposito di arte sacra e di cultura influenzata da spiriti religiosi e laici, una citazione particolare tocca all’Accademia degli Eccitati (data di nascita 1759) che nella Chiesa di “Santa Maria del Suffragio”, oggi nota come Chiesa del Purgatorio, aveva il suo punto d’incontro.
“Eccitati” – e dovremmo piuttosto chiamarli “Eccitanti” – poiché tra i loro compiti statutari primeggiava quello di svegliare, scuotere, “eccitare” le anime sonnolente e indurle a prendere atto che il mondo stava cambiando pelle e che presto la società, nella sua interezza avrebbe dovuto misurarsi con la rivoluzione industriale.
E nel frattempo che lo sguardo si sofferma sull’inusuale affresco – San Francesco che colloquia con la Morte, morte che sembra trasparire da una lastra radiografica – è giusto rendere omaggio al leader dei “riformatori vichesi”: il coraggioso fraticello Michelangelo Manicone, autore di una pregevole “Fisica Appula”, che pagò con ostracismi ecclesiastici e persecuzioni borboniche le ascendenze illuministiche delle proprie idee.
Analogamente, sembra giusto segnalare, tra le benemerenze acquisite dall’Accademia degli Eccitati, la costruzione del cimitero monumentale extraurbano sul colle Tabor (oggi San Pietro); una novità assoluta rispetto allo stesso editto napoleonico. (continua)
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