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San Menaio: gli anni (1950/1960) irripetibili

San Menaio: gli anni (1950/1960) irripetibili

Tra nudo “integrale”, donnaioli impenitenti, donne di “charme” straordinario e giornalisti curiosi. E arrivano i cinematografari


Un po’ di amore, un po’ di storia e qualche leggenda

Racconto a puntate


di Giuseppe Maratea


“Il mare di San Menaio è il mare più limpido del mondo”: così agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso raccontavano le cronache mondane del “Foglietto” e del “Tempo” affidate alle “penne alate” di Mario Ciampi, Lello Follieri, Attilio Tibollo e Raffaele Ventrella, che ci informavano anche che la spiaggia, dalle “Murge Nere” a “Valazzo” era affollatissima di gambe di belle ragazze, coperte (per modo di dire) da costumi da bagno di ogni foggia e colore e, qua e là, punteggiata, già di buon mattino, da tende a tre canne, che fungevano da spogliatoio e che venivano smontate all’imbrunire (cabine “veramente” mobili ante litteram: l’unica invidiata “suite” fissa apparteneva a Della Bella).



Si cominciava già a favoleggiare di “nudismo integrale” nelle notti propizie, alla “Murgia della Madonna” e circolavano i primi nomi della haute che lo praticava. Il richiamo - bonario e sorridente – di Padre Cristoforo Iavicoli, nell’omelia domenicale alla “Chiesetta della Difesa”, se tranquillizzava in qualche modo le preoccupazioni dei timorati, non riusciva a bloccare il gossip e il voyerismo invadenti, che le corrispondenze del foglio lucerino e dell’edizione pugliese del giornale romano di Piazza Colonna, continuando imperterrite, suscitavano nei credenti e, ancor più, nei miscredenti.



I giovani, che avevano passione per il pentagramma, per imparare a suonare il pianoforte, senza dover pagare neanche una lira, approfittavano della liberalità di donna Rina Santovito, che aveva accompagnato artisti celebri persino alla Scala, e che ben coperta e con il copricapo anche d’estate, sembrava il romantico souvenir di altra epoca. Alcuni, per partecipare alle sue lezioni, arrivavano alla sua Villa a Sant’Antonio, a piedi da Vico e da Rodi, un’ora ad andare e un’altra a tornare: prendere la corriera sarebbe costato una cifra esorbitante per il bilancio di famiglia.

Per i giovani (e non solo) San Menaio era il luogo ideale per farsi gli “affari” propri: offriva mille anfratti segreti, casupole romite, sentieri inesplorati. La vita mondana era resa più glamour da un drappello di giovani ricchi, la cui unica occupazione era quella di divertirsi e sperperare patrimoni (qualcuno riuscì nell’intento di finire rovinato) tra balli, bagni al chiaro di luna, corteggiamenti spudorati e alzate di gomito: la “polvere bianca”, per fortuna, non era ancora apparsa.

Pierino Zaffarano, Ugo Lucatelli, Lorenzo Della Vella, il veterinario Mimì Giglio, Vincenzo Firma, Pietro Monaco, Antonio De Stefano, Teodoro de Majo, Michele Palmieri avevano messo giudizio e si accingevano ad affermarsi nelle rispettive professioni e, nelle escursioni sanmenaiole, seguivano percorsi “singolari” che difficilmente si incrociavano, mentre “Cecchino” Della Vella, con la sua catarrosa moto “Guzzi”, eccezionalmente era inserito nella crème aristocratica di San Menaio.

Cominciavano a vedersi molte facce nuove: arrivava da Vieste – in compagnia del peschiciano Gaetano Vigilante – Nino Calandrini, mondano, rampante, chicchissimo nei suoi pantaloni bianchi, squattrinato, che parlava disinvoltamente di argomenti tabù, eppure aveva porte spalancate in tutta San Menaio e godeva di appoggi e amicizie importanti, soprattutto femminili.

Ma il “Re” della “dolce vita” di San Menaio era indiscutibilmente Michele Paolino, donnaiolo impenitente e paradigma del sex simbol paesano, che aveva mille relazioni con popolane, turiste, ospiti: storie ruvide, destinate a lasciare inevitabili strascichi psicologici e affettivi. Gli amori di Michele apparivano avventure romanzate, più interessanti di un romanzo, più inverosimili di qualsiasi invenzione letteraria e più divertenti, specialmente se a raccontarle era lui. Fu proprio un affaire di cuore, una vicenda sentimentale con tutti i suoi contorni scabrosi a inguaiarlo: una storia forte e, perciò, capace di esercitare un peso schiacciante sulla sua vita privata e pubblica (era insegnante di Educazione Fisica), ingigantita e sfruttata dalla presse de coeur dell’epoca, e oggi probabilmente destinata a essere soffocata nel silenzio e nel distacco.

Alla “casina” dei De Curtis, ogni sera, dopo cena ci si metteva in coro a cantare i motivi più in voga e si tirava tardi, spesso fino all’alba.

Unico solista, Mimì Del Conte, fresco del suo diploma di geometra conseguito all’Istituto “Masi” di Foggia, dove aveva maturato le prime esperienze musicali con la “Parker boys”. Capelli neri, lucidi di brillantina, accompagnandosi con la chitarra, iniziava a cantare con la voce e con il cuore “’na voce, ‘na chitarra e ‘o poche ‘e luna”, e, poi, finiva per condensare tutto il patrimonio della tradizione partenopea (Murolo, Scalise, Cigliano, Carosone)…: le dita accarezzavano sensuali le corde, mentre gli occhi agguantavano una preda ipnotizzata dalla sua bravura.




Nelle serate particolari – meno diligente nel presentarsi, ma sempre tanto atteso – seduto al muretto Ferruccio Castronuovo, il raffinato regista “felliniano” e lo studioso di microstorie e di tradizioni popolari, si districava tra le canzoni esistenzialiste di Juliette Greco e un tipo di musica, quella beat, che veniva dall’Inghilterra e nella quale confluivano il blues e il primo rock americano.

Ospite fissa, “tra le belle la più bella”, Antonietta De Vido, la più elegante con i suoi vestitini di voile, di charme straordinario: un mito.

Tutti erano innamorati di lei: adulatori, compagni di gioco, amici. Un amore impossibile rischiò di sconvolgere il tran tran della vita quotidiana del permaloso e introverso, ma di solida cultura umanistica e di sofisticate letture Carlo De Curtis che, infine, abbandonò il campo e fece perdere le proprie tracce, e non fu nemmeno necessario arrivare a un gentlement agreement.

“Cecchino D’Errico, invece, scoppiettante, anticonformista, tombeur de femmes tra i più presentabili (aveva studiato all’”Orientale” di Napoli) era preda ambita e punto di riferimento del bel mondo sanmenaiolo e rodiano: spendeva il suo tempo sulla “Lambretta” o in riva al mare tra flirts e pettegolezzi, nei ritagli di tempo che gli consentiva il ruolo impeccabile di guida poliglotta della troupe dei cinematografari de “La loi”.

Ma quello de “La legge” (altrove nota come “passatella” o “padrone e sotto”) è un capitolo a parte.

Giuseppe d’Addetta, Michele Vocino e Alfredo Petrucci, appena fu pubblicata da Parenti l’edizione italiana de “La loi” del francese Roger Vailland, polemizzarono duramente con lo scrittore transalpino, accusandolo di infamanti pregiudizi e di banali luoghi comuni nei confronti delle popolazioni garganiche. Avevano ragione? Avevano torto? A distanza di tanti anni, si può dire che, sia pure con una certa malagrazia, Vailland aveva fornito ai garganici uno specchio, osservandosi nel quale potevano imparare a conoscere una parte di se stessi che, forse, avrebbero preferito ignorare.

Sia come sia, fu una grande stagione quella che visse San Menaio, che sembrava avviata su sentiero di una definitiva promozione alla modernità (era il 1958) e che ebbe il suo momento d’oro, ma anche l’inizio del suo declino, la sua fatale conclusione con il film “La legge” girato interamente tra Carpino, Rodi, San Menaio e Monte Pucci.

Regista della pellicola, tratta, appunto dal romanzo di Vailland, che aveva riscosso il prestigioso “Premio Goncourt” era Jules Dassin, già famoso per “Rififi” e del cast di prim’ordine facevano parte Gina Lollobrigida, Marcello Mastroianni (una miscela di fascino e timidezza, di spavalderia e goffaggine), Yves Montand, Melina Mercouri, Pierre Brasseur, Paolo Stoppa, Vittorio Caprioli, Gianrico Tedeschi, Bruno Carotenuto, Luisa Rivelli e i giovanissimi Raf Mattioli e Lydia Alfonsi.

Gianni Di Stolfo, fratello di Rosettina, matrona romantica dagli occhi bistrati, registro infallibile di tutte le vicende garganiche passate e presenti nella sua “villa un sogno” – che di San Menaio conosceva ogni angolo, ogni pietra, ogni cambiamento di umore atmosferico, conobbe al “Bellariva” Tina (e, poi, la sposò), che faceva parte della troupe che girava “La legge” e che aveva una rassomiglianza sorprendente con Gina Lollobrigida: iniziò da lì per Gianni il lungo e proficuo rapporto con la Rai e poi con Mediaset per l’organizzazione di innumerevoli e fortunate trasmissioni.

In occasione dell’arrivo della troupe al “Bellariva”, San Menaio era stata ripulita, infiorata, e aveva assunto l’aspetto di una grande corbeille di fiori: fiori lungo le strade, nelle ville, davanti alle case più modeste. Ai sanmenaioli e ai vichesi era riservato il privilegio di vedere da vicino personalità celebri, stelle del cinema, attori famosi, dei quali avevano sentito parlare e visto le immagini su qualche rivista illustrata o nei documentari della “Settimana Incom” (“Villa Nunzia” della famiglia Delli Muti, invero, già trent’anni prima, era stata la location de “L’intrusa”, una commedia in quattro atti, che aveva riscosso un buon successo ed era stata proiettata addirittura in America).



San Menaio , comunque, non perdeva ancora quell’aria di borgo un po’ naif che costituiva tanta parte del suo misterioso fascino.

Eppure, sotto pelle, qua e là, si avvertiva una qualche nostalgia per l’ambiente esclusivo, le feste, la mondanità discreta e coinvolgente che cominciavano ad appannarsi: era il preannuncio dei “tempi nuovi”.(continua)


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