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Il magistrato che fece tremare il Duce


Nel 1947 il magistrato rodiano Mauro Del Giudice scrisse a Vieste la “Cronistoria del processo Matteotti”. Si era ritirato qui, ospite del fratello Luigi, dopo le turbinose vicende che l’avevano visto protagonista dell’istruttoria più scottante del Ventennio fascista. Il libro fu pubblicato soltanto 7 anni dopo, nel 1954, da Alberto Scabelloni e Salvatore Migliorino per i tipi dell’editore Lomonaco di Palermo. Ancora oggi è di scottante attualità.

Quando per Roma si sparse la voce che il 10 giugno 1924 “una banda di criminali fascisti” aveva rapito il deputato socialista Giacomo Matteotti, il magistrato Mauro Del Giudice ebbe l’immediata premonizione che una tegola stesse per cadere sulla sua “povera testa”. A quel tempo, era presidente della IV sezione penale della Corte di Appello e della Sezione d’Accusa. L’indagine, avviata dalla procura generale, aveva dato fino a quel momento scarsi risultati. Come era accaduto in precedenza per i delitti politici di eccezionale gravità, il procuratore Crisafulli, in data 19 giugno 1924, presentò l’istanza per l’avocazione dell’istruttoria alla Sezione di Accusa.

Quella mattina, Del Giudice trovò il documento sul suo tavolo di lavoro. Il suo amico Donato Fagella, primo presidente della Sezione di Accusa, con aria apparentemente indifferente, gli domandò: «Che intendi fare?». Del Giudice non era abituato a tirarsi indietro. Non lo fece neppure stavolta. Alla veneranda età di 68 anni, non delegò a nessuno la tremenda responsabilità di un’istruttoria che si preannunciava scottante perché coinvolgeva il direttivo del PNF (Partito Nazionale Fascista) e il capo del Governo.

Fagella aveva ricevuto dall’alto fortissime pressioni per esercitare tutta la sua influenza su del Giudice, per indurlo a rinunciare all’incarico e affidare l’istruttoria al consigliere Favori, gradito al Governo, ma stimava troppo il magistrato rodiano per insistere. Mise in guardia Del Giudice sull’alta posta in gioco, era in serio pericolo la credibilità stessa della Giustizia: «Del processo che tu istruisci non rimarranno che le sole carte, però da esso deve uscire intatto l’onore della Magistratura di Roma».

Mauro Del Giudice era ancora più pessimista: di quell’istruttoria, molto probabilmente, non sarebbero rimaste neppure le carte. Il regime le avrebbe fatte sparire dopo aver operato il salvataggio degli assassini, dei loro complici e mandanti. Rassicurò Fagella: con il suo compito d’istruttore avrebbe fatto onore alla Corte d’Appello di Roma. Il suo nome, unica ricchezza che possedeva su questa terra, sarebbe uscito illibato. Si augurava che i suoi colleghi facessero altrettanto.

Il 19 giugno 1924 iniziò l’istruttoria. Il procuratore Crisafulli, in quotidiano contatto col ministro Oviglio, da cui riceveva ordini e direttive, gli affiancò il sostituto Umberto Guglielmo Tancredi. Del Giudice temeva indebite interferenze, ma i suoi dubbi sull’integrità morale di Tancredi furono fugati appena vide che costui, a differenza di Crisafulli, era disponibile ad accertare pienamente le responsabilità non solo degli esecutori materiali del delitto, ma anche degli alti mandanti, compreso Mussolini.

La sera stessa, Del Giudice e Tancredi si recarono al carcere di Regina Coeli. Decisero di interrogare per primo Amerigo Dumini, il quale, appena li vide, con spavalderia e “modi da teppista”, li apostrofò bruscamente: «Ma loro cosa sono venuti a fare? Il Presidente (Mussolini ndr) è informato di quanto loro stanno facendo?».

Del Giudice lo fissò severamente, facendogli capire che era in presenza dei giudici delegati ad istruire un gravissimo processo a suo carico. L’inquisito capì che, se avesse mancato di rispetto ai magistrati, per lui era pronta la cella di rigore ed anche peggio. Mise da parte i suoi modi arroganti, ma si chiuse in un silenzio profondo e non volle confessare.

Quando, due mesi, dopo la giacca insanguinata di Matteotti fu trovata sotto un ponte della Flaminia, Del Giudice interrogò Dumini ponendogli sotto gli occhi l’indumento macchiato di sangue, ma costui sostenne il suo sguardo senza battere ciglio, e senza mostrare il minimo segno di pentimento.

L’Agenzia Stefani annunciò che Mauro Del Giudice aveva emesso i mandati di cattura contro Cesare Rossi (direttore dell’ufficio stampa, ritenuto l’eminenza grigia del Duce) e contro Giovanni Marinelli (segretario amministrativo del partito nazionale fascista).

La notizia suscitò immenso stupore e fu appresa con vivissima soddisfazione non solo a Roma, ma in tutte le città d’Italia. Si capì subito che l’Autorità giudiziaria aveva posto il dito nella piaga e sarebbe andata fino in fondo. «Avremmo dovuto spiccare altro mandato di cattura contro Benito Mussolini – precisa Del Giudice – se non ci fosse stato l’ostacolo costituzionale di essere costui deputato e capo del Governo, e quindi soggetto alla giurisdizione del Senato, costituito in alta corte di Giustizia».

Il Duce, avvertito il pericolo, usò subito l’arma dell’intimidazione. Commenta Del Giudice: «Due giorni dopo l’eseguito arresto di Marinelli, ai soldati regolari destinati alla guardia esterna del fabbricato di Regina Coeli, ove si svolgeva la maggior parte dell’istruzione penale, Mussolini sostituì i suoi militi fascisti vestiti in alta uniforme. All’improvviso, mi vidi accompagnare per la strada da un maresciallo di Pubblica Sicurezza in abito borghese e da un agente subalterno anch’esso vestito in borghese. Due altri agenti in borghese erano stati posti a guardia nella portineria del palazzo ove io abitavo. In questo modo era diminuita la mia libertà personale. La sera di quel giorno e la successiva, una cinquantina di fascisti facinorosi vennero a fare una dimostrazione ostile sotto la finestra di casa mia, gridando a squarciagola: «Viva Dumini, viva Volpi e morte ai nemici di Mussolini!». Pochi giorni dopo vennero affisse rimpetto le finestre di casa mia larghe strisce di carta stampata, sulle quali si leggevano queste parole di minaccia: «Chi tocca il Duce avrà piombo». Altre scritte del genere comparvero sui muri del Palazzo di Giustizia e in tutti i quartieri di Roma».

Cesare Rossi dopo una settimana di latitanza, perduta la speranza di essere aiutato da Mussolini a varcare la frontiera con un passaporto falso, si costituì. Confessò che il Duce, per imporre la dittatura assoluta in tutta l’Italia, aveva chiesto il suo aiuto e quello di Marinelli per creare un organismo segretissimo, cui aveva aderito il generale Emilio De Bono (comandante supremo della Milizia fascista e Direttore generale della polizia) «con lo scopo di atterrire i deputati d’opposizione, mediante atti di energica violenza, ossia con ferimenti, bastonate, purghe forzate di olio di ricino e, occorrendo, con l’uccisione dei suoi più pericolosi avversari, inducendo così tutti al silenzio più completo».

La banda dei sicari, guidata da Dumini, aveva effettuato alcuni attentati contro i deputati Amendola, Misuri e Forni, poi aveva devastato il villino di Francesco Saverio Nitti. Di tutti questi misfatti, Rossi spiegò minutamente i particolari indicando i nomi delle persone che vi avevano preso parte. La deposizione era pienamente credibile: era un tremendo atto di accusa per mandanti ed esecutori materiali. C’era quanto bastava per convincere Del Giudice ad allargare il processo ai delitti minori, estendendo l’accusa di associazione per delinquere all’intero partito fascista.

Il procuratore capo Crisafulli cercò di correre ai ripari: fece capire a Del Giudice che era «giunto il momento di liberarsi del guaio che era loro capitato addosso», dichiarando la loro incompetenza e mandando gli atti al Senato.

Del Giudice lo fissò negli occhi, dandogli una secca risposta: «Mandare gli atti al Senato, che per quattro quinti è asservito a Mussolini, sarebbe fare il giuoco di costui, che ha supremo interesse al salvataggio degli assassini e dei loro mandanti. Io non mi presterò mai a ciò!».

E infatti non si prestò. Questa coerenza fu pagata a duro prezzo da Mauro Del Giudice, come testimonia il giurista Alberto Scabelloni: «Per punire cosiffatta irriducibile intransigenza, il fascismo, togliendogli la garanzia dell’inamovibilità, lo sbalzò in Sicilia, assegnandogli le funzioni di Procuratore Generale a Catania, trasferendolo così dalla giudicante alla requirente, con palese e prepotente arbitrio. Da quel momento la sua carriera fu troncata e contro di lui cominciò il periodo delle persecuzioni, durato fino al crollo del fascismo».

Teresa Maria Rauzino


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