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NONNA CHECCHINA E LE SUE FAVOLE

Ogni anno, nella mia famiglia, si filavano venti chili di lana di pecora per soddisfare tutte le esigenze vestiarie, per cui, al tempo della tosatura, i pastori portavano a casa un bel mucchio di velli e li depositavano nel ballatoio delle scale che portavano al secondo piano. Una tentazione! Un pericolo! Una gioia immensa! Quelle scale, quell’atterraggio morbido… erano il mio gioco preferito! Prima due scalini, poi tre, poi via via fino a dieci: ogni volta che scendevo le scale il salto aumentava di altezza. E mia nonna, che ne sentiva il tonfo, gridava: “Ti devi rompere le ossa!”

Un giorno in cui l’euforia del salto era alle stelle, spiccai un volo acrobatico senza rendermi conto che Fufi, il gattone di casa, stava schiacciando il suo pisolino nella lana. Era bianco d’angora e si confondeva nel mucchio. Nel sentirsi arrivare addosso un bolide di trenta chili lanciò un urlo, mi soffiò in faccia forte come il mantice della forgia e andò a nascondersi sotto al divano. Mia nonna accorse temendo di trovare le budella del gatto e le mie ossa cosparse sulla lana. Io ero là, terrorizzata, con gli occhi sbarrati, ignara del guaio che avevo combinato. Non riuscivo più ad abbassare le palpebre e, per un intero anno, mi rimase un tic nervoso agli occhi, anche se indenni dalle unghie del gatto. Ancora oggi, quando attraverso quel ballatoio, ricordo l’urlo isterico del mio gatto e lo spavento di nonna Checchina.

Erano tante le caratteristiche di mia nonna. Al di sopra di tutto c’era il silenzio. Non si lamentava mai! Non chiedeva nulla, bisognava intuire le sue necessità. Il suo bicchiere, nel cantone della cucina, era sempre vuoto: non osava chiedere a Lucrezia, la domestica, di riempirlo. Aspettava la sua nipotina che, fra un salto e l’altro dei suoi frenetici giochi, si accorgesse di riempire quel bicchiere. Era compito mio!

Non ammetteva le chiacchiere inutili, né le maldicenze: “Lingue sacrileghe” – diceva – “se non potete dire bene degli altri, tacete”. Si, aveva il manto della carità verso il prossimo. Conosceva la storia di tutte le famiglie del paese, in modo preciso e bonario e ne illustrava i personaggi nelle sue favole meravigliose, per trasmettere a noi piccoli insegnamenti e consigli e…il fascino della fantasia.

“C’era una volta”: queste parole magiche avevano il potere di farmi cadere alle sue ginocchia, di rallentare il mio ritmo cardiaco, di trasferirmi in un mondo immaginario, irreale, ma tangibile, fatto di sogni, di emozioni e di commozione. Quando nonna parlava tutti tacevano per ascoltarla e fare tesoro del suo insegnamento. Nella tasca del suo grembiule aveva un piccolo coltello a serramanico, perché i suoi denti erano passati alla storia e per mangiare si serviva di quella piccola lama per sminuzzare il cibo e pulire le verdure. C’era un fazzoletto di stoffa, ricavato da vecchi vestiti in disuso, ben orlato e munito del famoso fiocchetto di riconoscimento. Ma, nel fondo, primeggiava la corona del Rosario! Ogni sera si raccoglievano nella cucina le conoscenti per la recita del rosario, in latino! Noi bambine dovevamo filare la lana e rispondere: lei teneva la corona e guidava la preghiera. Forse quel senso di mistero e di devozione ci faceva accettare il latino, ma la fede di nonna Checchina era incrollabile. Diceva: “La navicella del Signore non affonderà mai!”


Francesca Cerulli


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