Sull’evoluzione degli insediamenti urbani, attraversando il periodo che passa dal sacco di Roma, operato dai goti di Alarico nel 41
0 d.C. fino alle invasioni dei Saraceni del IX e X secolo, passando da semplici scorrerie di predoni e di pirati ad autentiche migrazioni di popoli come quella dei Longobardi, Emilio Sereni presenta un punto di vista originale seppur complesso. Secondo il celebre storico del paesaggio italiano, sarebbe errato imputare il saccheggio e la devastazione dei centri urbani alla sola azione degli invasori: «Questi processi han radici ben più profonde, e intrinseche alla società romana stessa, già ridotta a uno stato di marasma economico, e dilaniata da profondi contrasti sociali. Il successo stesso delle invasioni resterebbe incomprensibile, se non s’intendesse come esse s’intreccino con l’opposizione e con le rivolte degli schiavi e dei coloni, con l’aggravata insofferenza di larghi strati dei ceti possidenti stessi contro ordinamenti sempre più pesantemente cristallizzati in forme decadenti e oppressive: sicché la robusta barbarie di popoli, ancora impegnati nelle più fresche forme della costituzione gentilizia, sarà sentita sovente come un sollievo per le masse degli oppressi e degli sfruttati, e finirà col recare un rapporto storicamente positivo alla rinascita di una civiltà italiana»[1].
Di ruderi risultanti da quei tragici accadimenti conserviamo notevoli tracce anche nel Gargano. La “città morta” di Vieste sarà rievocata nelle ricerche di Vincenzo Giuliani, lo storico delle “Memorie di Vieste”, il quale prenderà ampio spunto dal manoscritto dell’arcidiacono Giuseppe Pisani, gelosamente custodito nell’Archivio storico della Biblioteca “Gregorio XIII”, presso la Curia vescovile di Vieste, che descrive il periodo che va dal 1664 al 1700[2].
Se il paesaggio dei ruderi e delle “città morte” si accompagnerà a quello dei centri inerpicati su siti scoscesi, il paesaggio agrario degli orti, delle piantagioni arboree, dei campi chiusi, sarà sostituito dal regime dei campi aperti, destinati alla caccia e alla pastorizia, nettamente prevalente su un’agricoltura diventata modesta, orientata all’autoconsumo e allo scambio semplice.
Giuliani ripercorre la storia delle invasioni, in Puglia e nel Gargano, da quella dei Goti, senza tralasciare di scrivere che contro i Giudei, «di gran danno alle città di questa provincia, di confusione allo Stato, di detrimento alla religione cristiana», l’imperatore Onorio era stato costretto già nel 398 d. C. a porre in atto “dure condizioni” e che, inoltre, durante l’impero di “Valentiano il vecchio”, i “ladroni” avevano già saccheggiato e bruciato insediamenti del Gargano, tra cui sicuramente anche Vieste[3]. Questa annotazione del Giuliani sui ladroni ci riporta alle riflessioni, appena citate, del Sereni sull’opposizione e sulle rivolte di schiavi e di coloni nell’ambito dei contrasti sociali dilaganti nella fase finale dell’Impero romano.
Tra le città di epoca romana, Giuliani cita Vieste, già colonia greca, Rodi e Merino. Ma Giuliani non troverà tracce di ruderi consistenti nei pressi dell’attuale città di Rodi Garganico. Viceversa, ruderi di Merino e di Vieste saranno ben evidenziati nelle esposizioni dello storico viestano. Infatti, Giuliani non solo esamina le rovine ampiamente visibili intorno alla chiesa di Santa Maria di Merino – saranno oggetto di scavi eseguiti negli anni Cinquanta del secolo scorso –, ma mette in correlazione i ruderi posti in piano con lo spostamento di strutture edilizie che si arroccano sulla collina retrostante in una struttura fortificata –sicuramente a seguito di assalti e di incursioni provenienti dal mare – e collegata da resti di una strada alla città distrutta e abbandonata:
«Se ne mirano ancora oggi gli avanzi, e su di una collina, che la città riguardava a prospetto del mare, rimangono pubbliche mura, segni di un’antica fortezza, nella di cui sommità, incavate in duro macigno, si mirano tre cisterne unite, una più sollevata dell’altra, avendo l’una coll’altra un picciolo canale. Ai lati di essa collina, a traverso su viva pietra, in cui sterpi e bronchi sono nati, persistono ben anche vestigie di comoda strada, dal tempo ruinata, che dalla città su la rocca conducea. Nel piano, dall’aratro ricoverte, si scuoprono rimasuglie di fabbriche grandi rovesciate, varie cisterne, diverse fosse, condotti, lamioni, e da per tutto calcinacci, rottami di pietre e spezzati mattoni, che indicano essere stata ben grande città»[4].
I resti della «città morta» di Vieste sono ben più manifesti e corrono lungo il perimetro costituito dalla confluenza tra le vie Madonna della Libera e Giovanni XXIII attraversati medialmente dall’attuale viale XXIV maggio, dall’area denominata “Sop la ren” fino alla congiunzione con l’abbattuta chiesa del Carmine[5].
Anche le “villae romane”, centri antichi di produzione e di organizzazione del territorio, avevano subito la sorte delle città e la loro disgregazione aveva prodotto la paralisi economica. Ma è proprio da loro che, secondo Sereni, dopo i furibondi saccheggi, il nuovo Signore, preso da esigenze produttive ed economiche, punterà alla riorganizzazione colturale degli estesi latifondi, le cui esigenze difensive si condensano in elementi che determinano, sin dal VI secolo, coesione e unità attorno a quei casali fortificati che verranno definiti infine castra[6].
Michele Eugenio Di Carlo
Socio Ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia
[1] E. SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1991, pp. 69-70.
[2] G. PISANI, Cronica e memorie di Vieste dall’anno 1664 all’anno 1700 (a cura di Mario dell’Erba), Vieste, Grafiche A. Iaconeta, 1985.
[3] V. GIULIANI, Memorie storiche, politiche, ecclesiastiche della città di Vieste, Saluzzo 1873, ristampa anastatica Forni Editore, 1989, p. 92.
[4] V. GIULIANI, Memorie storiche, politiche, ecclesiastiche della città di Vieste, cit., p. 66.
[5] Il curatore della citata Cronica e memorie di Vieste dall’anno 1664 all’anno 1700, don Mario dell’Erba nella nota n. 38, a pagina 27, scrive: «La chiesa della Vergine del Carmine con l’omonimo conventino dei padri Carmelitani sorgeva dove attualmente è stata edificata la scuola materna comunale, in Viale A. Manzoni nella parte sinistra, andando verso la località “Petto”. Detto convento con la chiesa sorse nel 1600, accettato nel Capitolo di Grottaminarda il 23 ottobre 1604. Fu soppresso nel 1652 […] Nel 1832 il Comune vi costruì il I° cimitero pubblico, detto dalla nostra generazione “camposanto vecchio” per distinguerlo dal nuovo (“gioia”) eretto nel 1901.
[6] E. SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano, cit., pp. 78-80.