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Peschici: la belle époque (terza e ultima parte)

Peschici: la belle époque

di Giuseppe Maratea (terza e ultima parte)

A luglio, ogni anno, arrivava, sempre nello stesso bungalow di Manaccora, per prendere i bagni con la famiglia, Natale D’Agostino, amico di tutti, già commissario prefettizio del Comune garganico, santone della Prefettura di Foggia, superesperto dei problemi della Protezione Civile, collaboratore principale del ministro Giuseppe Zamberletti nella ricostruzione del Friuli e della Campania, dopo gli eventi calamitosi che avevano colpito quelle regioni, profondo conoscitore del Diritto Urbanistico, sulle orme del suo compaesano, il tranese Aldo Loiodice, prefetto a Siracusa e a Salerno e destinato alla grande carriera, se il male non l’avesse ghermito prematuramente.

Al “Corso” che cominciava ad animarsi dopo le nove di sera, nello scrigno del breve rettangolo che separa il “Barocco” di Rocco Tavaglione, il Dante Alighieri del gelato, che con la sua “crema degli angeli” sembrava schiudere le porte del Paradiso (poi, Rocco lasciò e deluse tutti, attratto da attività che gli parvero più lucrose), la pizzeria-ristorante “da Peppino” (sempre superaffollata da una clientela che si sottoponeva volentieri a lunghi, estenuanti turni di attesa, sotto lo sguardo vigile del “granatiere” Peppino Fasanella, che regolava l’ingresso e non ammetteva deroghe per nessuno) e il “Marimà” di Celestina Mazzone, ci si “strusciava” con nomi famosi dello spettacolo, della finanza, della politica e della cultura, mescolati, senza dare nell’occhio, ai peschiciani: Aldo Fabrizi, Lando Buzzanca, Lucio Dalla (cliente fisso della “Pescatrice” di Filomena Salcuni), le sorelle Catherine e Agnès Spaak (nipoti del grande europeista), in compagnia di Johnny Dorelli e del produttore cinematografico Giorgio Patara, la figlia del senatore liberale Balbo dell’M3, Maria Teresa, l’editore della sinistra extraparlamentare Gabriele Mazzotta e Giorgio Fantoni, patron di “Electa” e di “Skira”, specializzate nella pubblicazione di curatissimi, pregevoli libri d’arte.

Seduti ai tavolini del Barocco, i torinesi Manlio Cavina, Giuseppe Cibrario, l’insigne otorino Paolo Menzio con il cognato Santagostino (dell’omonimo marchio dei negozi di alta moda), i più importanti azionisti del “Villaggio San Nicola” e del “Residence Solemar” si scambiavano impressioni, previsioni e commenti (l’ora propizia alle confidenze è quella che segue la cena).

“Sotto il Ponte”, infine, aveva aperto “Carnaby Street” di Fasano e De Finis (mosse di lì i primi passi Annino, diventato negli anni a venire uno dei più irrefrenabili imprenditori turistici di Puglia).

Quasi sempre all’alba, faceva una rapida apparizione con compagne invariabilmente diverse, che potevano essere le sue figlie o le sue nipoti, l’indigeno Gaetano Vigilante, eccellente ballerino di twist (poca cultura, ma, in compenso, molta cordialità, entusiasmo facile e a comando, faccia tosta con le donne), mentre, alla marina, spopolava il chimico foggiano, impenitente pescatore subacqueo, Nicola Lioia, invidiatissimo per essere costantemente alle prese con bellezze mozzafiato (i preti locali gli crearono la “leggenda” di dissipato e gaudente: in realtà si trattava degli amori e delle “scappate” di un qualunque giovane disinibito della sua età).

I locali, per così dire “hard” si riducevano al “Max Club” dove Enzo Fiocca, il fantasioso ed eclettico imprenditore salentino, che, poi, sposò Vittoria Masella, aveva creato scampoli di “dolce vita” (era il regno notturno dell’età del censo e del danaro: vi si davano convegno la gioventù dorata e semidorata, ragazze in compagnia di sessantenni e sessantenni in compagnia di ragazzi) e, sulla strada provinciale per Vieste, al “Saraceno” di Nicola Capraro, che ebbe vita breve e travagliata.

Puntuali, ogni fine settimana, ai tavoli del ristorante “la Pineta” di Mimì Mazzone e della moglie De Nittis (arredamento minimalista, atmosfera familiare, cortesia non affettata, pesce freschissimo e sapide e insuperabili minestre di verdure e legumi), Salvatore Spezzati, il “principe” dei costruttori foggiani, che si accingeva a mettere mano a “Coppa di Cielo”, la moglie Anna e una carovana di amici di spicco: i magistrati Michele Ramundo e Mario Apperti, il notaio Dino Giuliani, il commercialista Vittorio Postiglione, l’ingegnere Vinicio Di Gioia, l’onorevole Franco Cafarelli (Nicoletta De Nittis, la cognata di Mimì, che ne era l’animatrice, divenne avvocato, il locale chiuse i battenti e il “gruppo”, trasferitosi altrove, si integrò quasi completamente nel “club Dalfino”).

Il sottosegretario liberale Savino Melillo, aveva casa nel complesso costruito da Ciro D’Adduzio, ma non faceva parte di nessuna “consorteria” e appariva un isolato.

Leonardo Vecchiet, docente dell’Ateneo teatino e medico della nazionale di calcio, reduce dal trionfo dei Mondiali di Spagna, in compagnia del vichese Vincenzo Rinaldi, direttore amministrativo di quell’Università, non si stancava di rilasciare autografi al ristorante “la Collinetta” aperto da poco.



Al seguito di Enrico Dalfino, infine, il gotha degli imprenditori, dei professionisti e degli intellettuali più importanti e più influenti di Puglia (e non solo) aveva trovato a Peschici la propria sponda. Dalfino, cultore sommo del Diritto Amministrativo e docente di quella materia all’Università di Bari, cresciuto alla scuola di Massimo Saverio Giannini, impareggiabile “diplomatico”, garganico, ormai, a tutta prova, aveva fatto conoscere Peschici “a chi valeva la pena di farla conoscere”, com’era solito dire.



A lui, di volta in volta, si accompagnavano Pasquale Donvito, esperto di Diritto Comunitario, direttore generale di Finpuglia, conoscitore insuperabile della “macchina” regionale (e dei suoi segreti), fine gourmet (Donvito aveva per Enrico un rispetto e un affetto che confinavano con la devozione); Federico Pirro, il tonitruante redattore capo del tg regionale; gli Architetti Dario Morelli e Paolo Pastore e l’ingegnere Otto Dal Sasso, giovani ma già elementi di punta degli Atenei di Bari e della Basilicata; l’ingegnere Angela Cirrottola, coordinatrice del settore urbanistico regionale (il “vero uomo”, si diceva, di quell’Assessorato, ed era proprio così); l’economista Pasquale Rafaschieri e gli ingegneri Vito Armenise e Lorenzo Ranieri, giovani imprenditori che ben presto brillarono nel firmamento dell’economia e della finanza del capoluogo pugliese, dove avevano avviato l’entusiasmante esperienza di “Villa Romanazzi”; e, ancora, gli amministrativisti Alberto Bagnoli, Felice Lorusso, Marida Dentamaro, Fulvio Mastroviti, Vincenzo Resta, gli allievi prediletti di Enrico, che portarono (e portano) lo “stile Dalfino”, fatto di pulizia morale, di eleganza, di signorilità e, manco a dire, di profonda cultura, nelle Università, nelle Aule della Giustizia Amministrativa e, soprattutto, nella vita.

La sera, il club Dalfino, si riuniva al porto, al Ristorante “da Elia” di Elia Mastromatteo, in postazione defilata, a un tavolo allungabile, a seconda del numero dei commensali, e che si rimpolpava con la partecipazione “straordinaria” che, con il tempo, diventò fissa, di Enzo Binetti, il magistrato passato alla politica, con ruoli significativi prima alla Regione e, poi, al Parlamento e al Governo; di Guido Meale e Corrado Allegretta, magistrati amministrativi; dell’illustre civilista romano Carlo Maria Barone; del Professore di Diritto Urbanistico Sandro Amorosino; di Luca Buttaro, ordinario di Diritto Commerciale a Bari e spauracchio degli studenti di Giurisprudenza; di “Ninuccio” Labombarda e Alessandro e Carlo Cataneo, abili ed esperti imprenditori e finanzieri (cominciò “da Elia”, tra spaghetti alle vongole e cefali alla brace, sotto la magistrale regia di Dalfino, la scalata del gruppo apricenese al “San Nicola”).

Ospiti immancabili e cerimonieri discreti, Matteo Mazzone e Matteo Biscotti, i quali, tra i garganici, nella scala degli affetti del Professore, “ex aequo”, occupavano il primo posto. Riferendosi a Dalfino, Matteo Mazzone sussurrava convinto all’altro Matteo: “Ci vuole bene, ha capito che noi siamo come Gesù Cristo: senza una lira ma con il cuore da gran Signore”.

Fu quella la belle époque del club a Peschici. Poi, Enrico, aderendo alle pressanti sollecitazioni di Enzo Binetti e di altri innumerevoli amici, decise di scendere in politica e fu eletto sindaco di Bari. “I valori veri” – ricordava agli amici di Peschici che lo avvicinavano in quei giorni – “restano in prima linea, gli altri scompaiono”. E quando gli si chiedeva se quella politica fosse una scelta definitiva, rispondeva, con un sorriso, così: “Se volendo andare da Bari a Peschici, ti accorgi di aver sbagliato strada, non torni forse indietro?”.

Le cose, purtroppo, andarono diversamente. Il “brindisi” per la sua elezione a “Villa a mare”, il grazioso relais, dove Matteo Biscotti era approdato, dopo i “fasti” della “Grotta” fu l’ultima occasione vissuta in allegria con Graziella, Stefano e Walter che colmavano il Professore di mille premure (Oscar era un ragazzino): a loro bastava la felicità di sapere che uno “di casa” era arrivato primo.

Ben presto, però, il “vero signore” fu stritolato dalla macchina infernale dei Partiti e costretto a subire le invidie e le gelosie delle “mezze calzette”. Accettò con esemplare garbo istituzionale e senza replicare persino il pesante, scomposto, “intervento” del Capo dello Stato, Cossiga, in occasione dello sbarco a Bari dei profughi clandestini albanesi del “Vlora”, ingabbiati nello Stadio della Vittoria, e ai quali cercò di assicurare condizioni di accoglienza meno disumane.

Ormai, a Peschici veniva di rado: un pasto frugale, un saluto, un abbraccio e via. L’ultima volta che lo incontrai, mi bisbigliò all’orecchio con occhi lucidi: “Che vuoi? A Peschici le cose belle finiscono prima di finire”. Il male incurabile, vissuto con la sua personale “educazione alla morte” (affranti me ne davano notizia Otto Dal Sasso e Tonino Nasuti, segretario generale del Comune di Bari e mio compagno di studi liceali a Monte Sant’Angelo) stava rapidamente consumando il “sindaco buono” savio e sfortunato, l’ultimo uomo delle Istituzioni che la Puglia abbia conosciuto.

Un paese civile, diverso da tutti gli altri, felice eppure ancora con qualche sacca di povertà, cambiava registro: un’epoca a Peschici era finita.

E ora, come vanno le cose? È meglio? È peggio? Qui i pareri si fanno discordi.

Sono passati quarant’anni… Per il prodigio dell’illusione, “Sotto il Ponte” (e già caduta la notte), per quanto i vetri delle finestre siano chiusi, giunge la voce del “chiasso” cantilenante di Antonietta Piracci e, di fianco, si fa sentire l’eco di Celestina che dà le ultime beccate della giornata. E ancora le campane di Sant’Antonio con i rintocchi di qualche “novena”, i soliti lumi opalescenti per la prima nebbiolina e, in lontananza, il rumore catarroso di un motorino: tutte voci, tutti aspetti consueti, saldamente ancorati, di tutte le sere.

Eppure, basta un filo d’aria più vivo e più fresco, una ventata di profumo di cucina, per ridare la sensazione dell’odore respirato certe sere, uscendo “da Peppino”.




È un attimo, un attimo in cui tutto è nell’odorato, in questa rimembranza olfattiva dei calamaretti con il nero e delle “crocchette” di patate, che suscita subito un turbinio di immagini e di sensazioni: i riflessi delle candele infisse nei colli di bottiglia, i volti degli amici, le odalische di Romano alle pareti, la conversazione smagliante di Enrico, la voce gentile e il sorriso di Arcangela, mentre dispensa “delicatezze”, le dispute di quelli che si avviano verso “Villa a Mare”, per tirar tardi la notte…

Infine, l’abisso dell’“irreparabile tempo” che si spalanca dinanzi ai piedi, di tutte le sere come questa, svanite e irrepetibili (sono io stesso riveduto da me, come se fossi un altro, attraverso un velo di ineffabile malinconia).




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