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Peschici: la belle époque. Prima parte

Aggiornamento: 5 set 2020



Peschici: la belle époque. Prima parte

di Giuseppe Maratea


Montepucci: Rodi a ponente, a levante la torre di avvistamento, il verde guizzante dei pinastri, in basso, sullo sperone, il trabucco (un marchingegno? una macchina da pesci? “un’essenziale composizione astratta”, come la definì Romano Conversano?) e, seguendo la statale, in lenta progressione, la “città bianca” del Gargano: Peschici.

Quale approdo più familiare per un visitatore transadriatico che il paesaggio e l’edilizia spontanea di Peschici? Ostuni e Polignano sono gli unici centri pugliesi in grado di emularla con il biancore montaliano degli “ossi di seppia”. Ma Peschici, geograficamente più pronunziata a levante, cui sembra tendere con segreta nostalgia, ricorda l’Oriente nella struttura fisica, nel toponimo, nella provenienza del Santo Patrono (Elia), nel volto bizantino di alcune ragazze con gli occhi colmi di grazia misteriosa, fissi all’orizzonte quasi a perseguire un invisibile “altrove”. Come se nel codice genetico di questa popolazione siano, qua e là, percepibili tracce di una madreterra, e perfino di una madrelingua, che vanno identificate nelle regioni illiriche e anche più lontano, nelle valli e negli altipiani dell’Asia Minore.

Silenzio tra gli ulivi, felicità pastorale, leggiadri solo nelle ombre i panni al sole, fughe di scale, la strada a serpente verso il borgo antico con le linde abitazioni, ricordi moreschi nelle rampe a dado, vicoli scoscesi come “bocche di lupo” che, d’improvviso, lasciano scoprire il mare, frastagliature, macchie di vegetazione soprastante, calette, spiagge di oro fino, tetti e reti a onda come il mare, muli che ammusano al sole, il Castello, con la sua “pedana di Icaro”, la torre di Via Le Ripe, il Recinto Baronale, con l’iscrizione sul portale datata 1735.

I documenti più attendibili, del resto, fanno risalire le origini di Peschici alla vigilia dell’anno Mille, per opera degli Schiavoni, gente slava (il termine “slava” sta genericamente per etnia non occidentale), assoldata dall’imperatore Ottone di Sassonia, con il preciso compito di liberare il Promontorio dai Saraceni. Nucleo iniziale, perciò di immigrati e, via via, punto strategico ambitissimo da principi e baroni che si susseguono nel segno degli Svevi, degli Aragonesi e degli Angioini, mentre la vita della comunità acquista significato economico, civile e religioso a ridosso dell’Abbazia di Kàlena, di cui, malridotta com’è, si stenta a supporre l’originario splendore.

Senza trascurare i traffici marittimi che dovettero assumere notevole rilevanza, se lo scalo viene riportato nei portolani del XV e XVI secolo, e senza tralasciare un “orgoglio” che si inscrive nello sviluppo nautico nazionale: Giuseppe Libetta, comandante della prima nave a vapore italiana, nell’anno di grazia 1818.

E poi Procinisco, San Nicola, Cala Lunga, Sfinale, Manaccora il cui grottone è legato a interessanti dell’età del bronzo. Manaccora (o Manacora o Manacore: bisogna essere indulgenti con la bizzarria onomastica) sarebbe rimasta probabilmente una voce di aspro suono nella nomenclatura degli archeologi se, nel mezzo degli anni Cinquanta, non avesse acquistato repentina popolarità grazie a un romanzo, “La loi”, di Roger Vailland e alla omonima trascrizione cinematografica di Jules Dassin. Cosicché, sia pure per cause esterne, per ridondanza immaginifica, un angolo sconosciuto agli stessi aborigeni, entra nei grandi circuiti turistici, con forte incentivazione per l’intero circondario.

E Peschici, che fino al dopoguerra, sembrava miticamente isolata nel comprensorio, nonostante un goffo tentativo di coinvolgimento ferroviario, d’un tratto si mette alla testa del litorale garganico, si guarda intorno, esplode.

Ma, occorre aggiungere, spesso perdendo il suo incanto naturale e lacerando le proprie tradizioni: occorre aspettare che si plachi l’onda umana di luglio e agosto perché una donna intenta a infornare fichi e carrube, a salare olive, a dissalare sarde e alici, ad appendere un serto di pomodori per i mesi invernali, ci convinca con voce gentile che i capperi dell’agro di Peschici si impongono come i migliori del Mediterraneo e che sono quelli medesimi che in tempi più lontani esaltavano le pietanze di luogotenenti orientali, pascià, monsignori e giacobini (“Narduccio” D’Aprile ne fu l’indiscusso promoter nei paesi vicini, dove cercava, al contempo, di imbastire improbabili matrimoni).

La scena politica peschiciana (e non solo), per circa mezzo secolo, fu dominata da Michele Protano, socialista, ginecologo di larga estimazione e di solido impianto culturale, per molti lustri Assessore provinciale e, poi, Presidente di Palazzo Dogana. Per lui, le nove Muse, contavano poco: contava solo la decima, la Politica, che riassumeva ed esaltava.

La DC di Peschici, che gli si contrapponeva, si affidava, per lo più, a Romano Mauro (il padre di Mario, che sarebbe diventato ministro in quota a “Comunione e Liberazione” prima, e a Monti dopo), a Franco Fasanella, al vichese Vincenzo Afferrante, a Ugo Esposito (di raffinata cultura, “libero pensatore” e uno dei pochi “maîtres à penser” locali) e ai giovanissimi Pasquale De Nittis e Fabrizio Lo Sito: in tanti anni, però, lo “scudo crociato” non registrò affermazioni significative, attestato com’era su posizioni rancorose e di rigida conservazione, e, soprattutto, incapace di proporre un credibile modello di sviluppo alternativo.

Un flop clamoroso fu, per sconfiggere Protano, la candidatura del “partigiano” armatore Mario Di Lella (le sue fortune si favoleggiava provenissero dalla scoperta del tesoro di Dongo), sostenuto anche dalla destra. In quella tornata elettorale Di Lella fu sonoramente sconfitto.

L’unica volta che l’operazione riuscì fu con Michele Sarro, il “giudice sindaco”: ambizioso, puntiglioso, spesso velleitario, nel fondo, però, aveva della freschezza e dell’ingenuità. A oltre sessant’anni, talvolta, era il più ragazzo di tutti: si coglievano, nella sua esperienza amministrativa, delle possibilità di bohème, di buttare la vita allo sbaraglio, di dilapidare un patrimonio di esperienze, di cultura, di valori. La sua vicenda amministrativa non fu di lunga durata. “Don Michele” amministrò con i codici sul tavolo, che, secondo le malelingue, applicò rigorosamente per gli altri. Pare, comunque, impietoso, che molti lo ricordino soprattutto per le ardite “ristrutturazioni” (si fa per dire) della sua villa a Cala Lunga e per le omeriche liti da “pollaio condominiale” con il dirimpettaio Giorgio Toni, barone della facoltà di Medicina bolognese.

La plateale, quasi tattile, rappresentazione della consistenza dei due opposti schieramenti, naturalmente separati, si aveva la domenica, alla Messa delle undici, alla Cattedrale o a Sant’Antonio, dove convenivano tutti coloro che, nel paese, avevano una qualche posizione sociale, un nome o, semplicemente un vestito nuovo da mostrare: il sole, infatti, entrando dai finestroni, produceva un gioco di colori, in cui le vesti festive delle donne risaltavano e splendevano. La “funzione”, così, era insieme Messa e festa cittadina, Chiesa e salotto.

L’eterna legge della politica è quella della ricerca del “meno peggio”, e, a questo assunto, Protano cercò di adattare le sue decisioni nella scelta dei vari sindaci. Di “Mimì” Mazzone, intelligente, narcisista, poseur, Protano si fidava poco, e di Matteo D’ambrosio tutti erano convinti che facesse il Sindaco “ad nutum”, a un cenno, per una specie di contratto revocabile: Matteo, invece, godeva di ampi spazi di autonomia e con i tutor aveva stabilito un rapporto di “concordia discorde” o, meglio di “discordia concorde”. Solo Lorenzo Palazzo, a Protano, rimase sempre fedele, con una devozione inalterabile, e gli diede pochissime noie.

Il salotto della villa di Protano (allora in strenua, leale, competizione con l’altro “grande” del socialismo garganico, il rodiano Teodoro Moretti) con vista imperdibile sul golfo, era crocevia del fior fiore del socialismo pugliese, e non solo: da Rino Formica a Tommaso Pesce, da Peppino Di Vagno a Titino e Claudio Lenoci, da Ciccio Colucci a Mimì Romano e Franco Borgia, da Antonio Cariglia a Mario Tanassi, a Walter De Ninno (“Walterino”, dalle colonne della Gazzetta di Foggia, che dirigeva, e che era un grande emporio di malignità, di pettegolezzi, di episodi di trasformismo politico, atti, comunque, a far capire il clima di quegli anni), era abituale commensale a casa Protano, ma lo si incontrava spesso anche “Al Castello” di Mattea Vinelli o al “Paglianza” di Germano Fantino, di Monforte d’Alba, albergatore competente, cortese e discreto, che prima aveva avuto positive esperienze nel settore al “San Nicola” e a “Valle Scinni”.

(continua)



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