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Peschici: la belle époque (seconda parte)

Peschici: la belle époque

di Giuseppe Maratea (seconda parte)

A Peschici, il meglio del giornalismo italiano trovava ospitalità nella villa di Libero Montesi, già direttore del “Telegrafo”, la testata livornese appartenuta alla famiglia Ciano, e, poi, Capo della redazione romana dell’Europeo. Montesi viveva nella pace di Procinisco, sicuro, ormai, di essersi affrancato dall’ansia del giornalismo quotidiano, il “mostro” che divora instancabilmente lo “ieri” per essere divorato dal “domani”.

Libero ironizzava sul “mestiere”: “Tre cose” diceva “rovinano l’uomo: la carta, la penna, il calamaio. Io me ne sto liberando”. Molto cordiale, assumeva, nelle grandi occasioni, un po’ la posa di grande diagnostico della situazione politica mondiale, mentre la moglie, Olga Fedrizzi, intratteneva quotidiane relazioni con le Istituzioni e gli abitanti del luogo: donna travolgente, energica, ambiziosa, invadente, insistente nelle richieste, ma anche estroversa, affabile, vitale, Olga non rinunziava mai a quello che voleva e non si rassegnava se le si opponeva un diniego. La sua conversazione non era mai “libera”, spontanea, e si avvertiva qualcosa di voluto, artificiale, stereotipato alle cortesie.

Spesso, per riprendere fiato dal ritmo frenetico che imponeva la direzione di Panorama, arrivava a Procinisco Lamberto Sechi, in compagnia di Gaetano Tumiati e della moglie Emilia Granzotto, le firme più autorevoli del settimanale.

Sechi, amico di Enzo Biagi, senza ambizioni letterarie o politiche, aveva introdotte nel primo “news magazine” italiano lo slogan fortunato e non sempre veritiero “i fatti separati dalle opinioni”: fatti precisi, mai generici (la notizia in sé si sa, non esiste, e il modo stesso di porgerla racchiude un commento). Panorama andava benissimo e teneva testa a tutte le pressioni: piccolo formato, impaginazione sobria, netta prevalenza dei testi scritti sulle immagini, stile di scrittura asciutto e impersonale, battagliero e spietato verso i detentori del potere politico.

Sechi, nei suoi soggiorni peschiciani, ripeteva, paziente, a chi cercava, con domande incalzanti, di carpirgli qualche segreto del giornalismo, la formula tassativa che ricordava ai suoi redattori: “Panorama non ha né amici né nemici: tratta tutti con equanimità”.



All’osteria “da Peppino” ci si imbatteva spesso in Pier Maria Paoletti, che su Panorama aveva inaugurato una colta, briosa rubrica gastronomica: un’autentica novità per molti anni.

C’era anche Camilla Cederna, donna di gran classe, che aveva esordito nel giornalismo con articoli di moda e di costume insolitamente graffianti. “Meno male che la gente ha la memoria corta” scherzava “i miei più grandi nemici sono coloro che conservano gli articoli”.

Camilla aveva introdotto nell’Espresso una componente mondana, con qualche frivolezza, che fece nascere la fama del “radical chic”. Il “lato debole” era il titolo della sua estrosa rubrica nel settimanale romano: dopo l’attentato di Piazza Fontana, abbracciò, a sorpresa, la causa dell’impegno politico e civile dando alle stampe l’inchiesta, coraggiosa per quei tempi, “Pinelli, una finestra sulla strage”. E, dopo che una volta la raggiunse il fratello minore Antonio, che dalle colonne del Mondo e dell’Espresso fustigava i “vandali in casa”, stupratori del nostro patrimonio storico, archeologico e ambientale, a Peschici non la si vide più.

Più a lungo, durò la frequentazione con la cittadina garganica di Maurizio Chierici, allora inviato speciale di punta del Giorno, il giornale che, in un clima di generale conformismo, aveva rivoluzionato, nella formula e nell’impostazione tecnica la rigida e monotona grafica della stampa quotidiana.

Nella calura agostana, appariva spesso Livio Zanetti, bolzanino come Montesi, che dirigeva l’Espresso formato “lenzuolo”, vicino alle posizioni della sinistra democratica: elegante, spregiudicato, Zanetti era impervio alle pressioni politiche, alle quali opponeva una scanzonata imperturbabilità. Il settimanale era un mix di politica, cultura, economia, attualità, costume, trattati con grande impegno professionale, venato talvolta, però, da una punta di snobismo.

Alla farmacia dello “speziale” Matteo Labombarda, con cui aveva condiviso gli studi liceali al lucerino “Ruggiero Bonghi”, si fermava, tra un viaggio e l’altro in ogni parte del mondo, Matteo De Monte, nato a Cagnano Varano, l’inviato speciale del Messaggero, di cui, ormai, era considerato una delle firme più prestigiose. Erano le giornate dell’amorevolezza: fiumi di aneddoti bonari, un mare di ricordi, qualche rimpianto…

Un percorso particolare seguiva, invece, Francesco Rosso, prima firma della Stampa di Torino, che ebbe con Peschici un lungo, affettuoso rapporto. Di soda, ben digerita cultura umanistica cui si innestava una viva sensibilità per la natura, Rosso, mescolando “globale” e “locale”, fu l’aedo illustre e puntuale di Peschici, di cui evidenziò anche i ritardi e le contraddizioni in un bel reportage dal titolo “Gargano magico”.

Il soggiorno di Rosso a Peschici era il ritorno alla vita agreste di un uomo che girava il mondo e abitava di solito in città, ma senza averne radici sentimentali e che, appena poteva, si rifaceva provinciale e campagnolo, in compagnia degli amici sicuri Rocco, Matteo, Michelino… “Misterioso” dal punto di vista delle donne, ma forse soltanto riservato, negli innumerevoli articoli dal Gargano, Rosso rappresentò scenette di vita di provincia, di “macchiette” e di tipi ben delineati, con gustose descrizioni e riflessioni, senza scadere nei classici “pezzi” del giornalista in vacanza che vuole facilitarsi la vita dicendo bene del paese che lo ospita.

Al “Castello”, in quegli anni, Romano Conversano si muoveva in suo mondo personalissimo: le sue tele, con le odalische formose e le stradine tra muri di case dalle volte a cupole piene di sole, sono di una potenza di evocazione visiva che fa sentire le cicale, la polvere, il caldo. La salute lo aveva sempre retto mirabilmente, ed era la prima condizione per avere il buon umore. “Ho preso da giovane l’abitudine di star bene” diceva nei momenti di grazia “e non vedo perché dovrei cambiarla ora che non lo sono più” (oggi non resta nulla di quel cervello che, vedendo la luce del sole, la seppe rendere con tanta forza e tanto godimento).

Altro grande era Alfredo Bortoluzzi, nato in Germania da genitori italiani, pittore, ballerino dell’Opéra di Parigi, coreografo, scenografo: frequentò il Bauhaus a Dessau ed ebbe come maestri Kandiskiy, Albers, Schlemmer e, soprattutto, Klee, che influenzò la sua pittura come “gioco delle cose ultime”.


(Bortoluzzi 1983 - foto pubblicata con autorizzazione di Mimì Mazzone)


Nel 1957, Bortoluzzi scelse di vivere a Peschici nel suo villino a Valle Clavia, trovando una fonte inesauribile di ispirazione e un approdo decisivo per l’elaborazione del suo linguaggio pittorico. Lì riceveva, lontano dal frastuono, l’affetto di pochi amici selezionati. “Io qui sto bene” diceva “sto gran parte del giorno all’aria libera dipingendo, guardando il mare e ascoltando il concerto degli usignoli”.

Manlio Guberti, romagnolo, invece, dalla Torre di Monte Pucci, il suo eremo-laboratorio, mirando le stelle e non guardando mai la televisione, dimostrava che i poeti e i pittori (quelli veri) esistevano ancora. Niente “pop” né colori urlati e neanche fini ideologici e propagandistici: l’obiettivo di Manlio rimaneva la bellezza, la natura, il ricordo e l’emozione.

Arrivava, anche, con la sua rombante motocicletta da Calenella, Andrea Pazienza, il fumettista che tradusse in disegni il talento straordinario di Fellini e che sarebbe passato alla storia per la genialità dei suoi manifesti.


Al contrario, alloggiava a Manacore al (naturalmente) proletario “Camping Internazionale” di Aldo e Nina Ravelli, gestito da Pasquale Quaglia, Mario Capanna, il “lider maximo” per dirla alla cubana della contestazione studentesca, che aveva “coerentemente”, però, frequentato, in maniera più o meno clandestina, il salotto di Giulia Maria Crespi, la “zarina”, proprietaria del Corriere della Sera, della quale si insinuava fosse stato l’amante. Mario era conversatore di acutezza rara, anche se troppo incline verso spiegazioni tutte filosofiche e ideologiche degli avvenimenti, con “leggero” disprezzo del casuale, dell’aneddotico.



(ph: Alberto Macaluso - Di Elena Torre from Viareggio, Italia - Capanna, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2855205)


Quasi a un tiro di schioppo, per contrappasso, all’M3, del senatore liberale Balbo, si riposava Alfredo Biondi, Ministro dei Beni Culturali, un avvocato toscano brillante, caustico, che esercitava la professione a Genova. Al sindaco Sarro, che non finiva mai di esprimergli la gratitudine dei peschiciani per la sua presenza, Biondi, con ironia un po’ forense, rispose sorridendo: “La gratitudine ha brevissima prescrizione…”.

Avevano casa nel centro antico anche Francesco Coppola, siciliano di nascita, emiliano di adozione, architetto, grafico, designer, creatore di una “hot house”, una sorte di serra creativa, in cui incontrarsi e confrontarsi, e Mario Bellini, milanese, archistar, designer per Olivetti, Cassina, Artemide, Fiat, Lancia e Renault, allestitore di grandi mostre internazionali, più volte “Compasso d’oro”, direttore di Domus, la famosa rivista di architettura, design e arte.

Dal canto suo, Aldo Ravelli, il “mago” di Piazza Affari che, nel bene e nel male rifletteva l’euforia e la depressione della Borsa di Milano, aveva fatto, con la figlia Nina, consistenti investimenti immobiliari a Manacore, e già l’architetto e urbanista udinese, Marcello D’Olivo, aveva dato vita all’Hotel Gusmay, opera ispirata a Wright, Aalto e Le Corbusier, tesa al superamento del razionalismo e caratterizzata da una complessa ricerca spaziale. L’intervento, ovviamente, si appalesò in sintonia perfetta con le indicazioni dello strumento urbanistico peschiciano, redatto (nientemeno) dall’architetto Renato Bazzoni, vicepresidente di Italia Nostra, la gloriosa (allora) Associazione ambientalista fondata da Umberto Zanotti Bianco.

E capitava anche frequentemente di sorprendere a un tavolo del “Barocco”, lo “chicchissimo” locale di Rocco Tavaglione, Nina Ravelli con il marito Achille Occhetto, prima che il “piè veloce” indirizzasse il Partito Comunista verso un’ideologia di tipo occidentale e prima anche che il “clic” del fotografo ne immortalasse a Capalbio il bacio alla nuova compagna Aureliana Alberici. (continua)


Se vuoi leggere la prima parte clicca qui.

https://www.fuoriporta.info/post/peschici-la-belle-%C3%A9poque-prima-parte

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