San Menaio (1950 – 1960) gli anni imperdibili (seguito)
di Giuseppe Maratea
L’edilizia da “pollaio condominiale” e il kitsch di pseudo-architetture non avevano ancora bruttato e inquinato la purezza del paesaggio del ridente borgo balneare di San Menaio.
Al “Mulino di Mare” c’erano le dimore estive dei Nardini, dei sanmarchesi Serrilli e, all’interno, a “Carbone” quelle dei Cerulli, dei Vitale e dei Maratea, mentre alle “Murge Nere” le abitazioni dei De Petris, dei D’Errico, degli Africano, dei Pepe , dei Campanozzi costituivano una sorta di anticamera di “Villa D’Altilia”, misteriosa e inaccessibile, dove l’avvocato Tommaso si riposava dalle fatiche dei tribunali e della politica, con una nidiata di figli e nipoti.
Tra i nipoti, Tommaso (Tommy) figlio dell’avvocato Andrea, viveva a Roma, ma d’estate lo si vedeva spesso sgambettare sulla spiaggia delle “Murge Nere” in interminabili tornei di calcio. Era quasi sempre della partita il cugino Mario Cataluddi, in seguito comandante dei Vigili Urbani della Capitale. Tommy, invece, fu assunto alla redazione sportiva del “Messaggero” (il responsabile era un altro garganico doc, Enzo Petrucci, figlio del sannicandrese Silvio, già redattore-capo del giornale di Via del Tritone) e, in seguito, passò alle pagine culturali. Ma, all’improvviso, il rapporto con il “Messaggero” si incrinò e, dopo una serie di burrascose vicende, Tommy lasciò il giornale e, salvo qualche sporadica apparizione estiva a San Menaio, di lui si persero le tracce.
La pace agreste di queste dimore era spesso turbata dal rombo del motore dell’elegante automobile dello spericolato Giacomo Palmieri, zio per via materna di Maria Della Bella (la donna più in del gotha provinciale, di straordinaria bellezza e dal pedigree inattaccabile), e padre, tra gli altri figli, di Michele che si divideva tra San Menaio e Firenze, dove aveva ultimato con successo gli studi di Giurisprudenza: ottimo calciatore, tifosissimo della “squadra del giglio”, cacciatore inguaribile, ben presto elemento di spicco dell’ufficio legale della Fondiaria e, poi, del pensatoio dell’Ingegner De Benedetti, Michele dovunque andasse, si portava San Menaio dentro.
Non basta avere ricordi (i miei, in fondo, sono un elogio della vita contro la morte). Bisogna saperli dimenticare, quando sono molti, e attendere, avendo la grande pazienza che ritornino.
Ricordo…
I medici vichesi Cardone, Gagliani, Di Lalla, nelle loro ville a Valle delle Noci, a Valazzo e al Carbonaio, restavano estranei alla mondanità del luogo: vedevano solo pochi selezionati ospiti e alcuni amici collaudati.
E ancora a Valazzo facevano bella mostra le casine dei Giglio, dei De Vido, dell’avvocato Dattoli, in seguito benefattore del Comune di Vico, Villa Cavalli, del giornalista vichese del Messaggero Carlo, che aveva sposato la nipote del Cardinale Ottaviani (in un momento convulso della vita nazionale, Cavalli svolse la preziosa funzione di pony-express, recapitando brevi manu al Cardinale le missive di Mario Missiroli, direttore del giornale e interprete del pensiero degasperiano teso a una maggiore e più marcata laicità dello Stato) e, a un tiro di schioppo, la casa di famiglia di Matteo De Monte, il brillante inviato speciale del quotidiano romano, che era nato a Cagnano Varano.
Sempre al Carbonaio era attrezzata al meglio, per gli amanti del sole e della tintarella Villa Del Viscio, mentre Villa Nunzia dei fratelli Delli Muti, offriva il primo esempio di redditizio bed&breakfast.
Alla Difesa, svettava la civettuola Villa Petrucci: Silvio, che aveva sposato la nipote di Petrolini, vi si rifugiava per ritemprarsi delle fatiche di capo della redazione del Messaggero, sovente disturbato dalle petulanze degli ultimi ras del fascismo di Capitanata, con le loro suppliche e le loro delazioni, che il giornalista garganico fingeva di raccogliere. Il fratello Alfredo, invece, si riposava al mare di Rodi, a Villa Ruggiero, la casa di famiglia della moglie Nilla. Alfredo era un’istituzione della cultura garganica, il genius loci più autentico. Quando era a Rodi, manco a dire, non rinunziava all’abitudine, tipicamente garganica della controra, in cui convivono l’estraneità a un’ideologia forsennatamente produttivistica e l’assenza parassitaria di etica del lavoro.
A Capone, tra ulivi e carrubi, era la villetta di Carmine Panunzio, già sindaco di Vico, mentre il fratello Ambrogio preferiva, con donna Maria e la figlia Donatella, la quiete della Vedovagna a Calenella.
Donna Maria aveva inaugurato la moda dei pranzialsole, come li chiamava (i pic-nic di oggi), alla Torre di Monte Pucci, non ancora trasformata in casa-laboratorio dal pittore Manlio Guberti, o, di fronte, a Macchia di Mare, prima che l’ENAL si accingesse ad aprire un villaggio turistico.
A Valazzo, Rosettina Di Stolfo, aristocratica e un po’ svagata, con le mani bucate, adusa a vivere alla grande, era immersa in un’atmosfera decadente, si illudeva di avere sempre vent’anni e continuava la rituale abitudine del the pomeridiano: s’inventò il mestiere di affittacamere per andare avanti, ma farsi pagare la metteva in un terribile imbarazzo. Lì cominciavano a vedersi facce nuove e, naturalmente, partiva da Rosettina l’imprimatur per l’apertura di nuovi “salotti”, ma la sua Villa un sogno rimaneva meta obbligata dei villeggianti più in vista e riferimento sicuro di sofisticati ricevimenti e di feste leggendarie.
Nelle lunghe serate invernali a Villa un sogno, spesso, la corrente si interrompeva a causa del temporale, e un cane di fuori, abitualmente guaiva, cercando di entrare, mentre Rina Cappuccilli, effervescente, ironica, sempre presente a feste e a serate private, senza guardare troppo per il sottile, passava la parte più cospicua del suo tempo, con la sigaretta perennemente tra le labbra, in partite a carte noiose, tra giocatori di canasta e signore con capelli alla bebé. Rina era la sorella di Pasquale (medico e dirigente superiore del Ministero della Sanità), di Tonino (Generale dei Carabinieri e, nelle pause del lavoro, protagonista di memorabili battute di caccia a Gadescia e alle Cortiglie), di Bruno (avvocato e e, per diversi lustri, magistrato onorario): veri signori, amici di tutti, professionisti prestigiosi e sanmenaioli di fede incrollabile. La mamma di Rina, donna Angela Mastromatteo, dall’abbigliamento semplice, un po’ campagnard, trascorreva a San Menaio, al Lungomare Maria José (oggi Lungomare Andrea Pazienza) buona parte dell’anno, mentre, a pochi passi, risiedeva stabilmente la sorella donna Bianca, che aveva sposato il Colonello Ettore Rocca. Elegantissima, curatissima, incedeva come una dea omerica o una star del cinema: una leggenda.
Casa Dal Sasso, alla Difesa, invece, era tappa d’obbligo non solo per le famiglie “bene” di San Menaio (Panunzio, Delli Muti, Cappuccilli, Rocca, Santovito, Lucatelli, di Stolfo, De Vido, De Vito…) ma anche per la café society di Capitanata e per quello stuolo di intellettuali e giornalisti (Petrucci, D’Addetta, Ungaro, Ciampi, Follieri, Tibollo, Ventrella…) che l’avevano scelta come luogo d’elezione: mobili sobri, tappezzerie, di cretonne fiorate, mattonelle con pesciolini blu e verdi, il camino per sopravvivere ai rigori invernali e le monellerie di Guido, Tonino e Otto, i “gioielli” di famiglia. Berto, il dentista, piccolo, magro, fragile, gentilissimo, lavorava in una stanzetta mentre la moglie Marinella, estroversa, dal senso di ospitalità innato, molto selettiva nei rapporti, si scatenava soltanto con gli amici sicuri: furono anni fecondi, di una gioia fatta di piccole cose per lei e per tutti quelli che la conoscevano (il rosolio, il sorbetto e, a Pasqua, le uova decorate personalmente…).
A Villa D’Addetta, l’estate, erano ospiti (paganti) Raffaele e Maria Grazia Ventrella: d’inverno ciascuno dei coniugi viveva la propria vita, ma la famiglia restava un ancoraggio fisso, irrinunciabile per entrambi. L’avvocato Giuseppe D’Addetta ha lasciato il segno nella storia di San Menaio, oltre che per il suo “San Menaio e dintorni” (un agile volumetto di impianto rigoroso e di accattivante lettura) e per gli innumerevoli editoriali sul suo mensile “Il Gargano” e sul “Tempo”, per un convegno in difesa del paesaggio garganico, della tutela e della valorizzazione delle bellezze naturali e della protezione dell’architettura rurale di quella parte del Promontorio, contro la speculazione, gli sventramenti indiscriminati e, appunto, l’edilizia da “pollaio condominiale” che cominciavano a prendere piede.
Analogo, accorato, elegiaco “grido di dolore” contro i predoni del cemento armato e i distruttori di incomparabili paesaggi della “regina” del turismo garganico venne lanciato da Franco De Vito (e contenuto in “San Menaio com’era” di Michele Biscotti che ha spulciato nei cassetti di antiche famiglie e messo a disposizione di tutti un immenso archivio fotografico, tesoro inestimabile della memoria dei nostri padri: “Un racconto per immagini tramato d’amore e di sguardi spirituali”, ha scritto Filippo Fiorentino).
Peccato, però, che Franco avesse dimenticato i buoni propositi quando si trattò di costruire la propria abitazione a Valazzo. Sorte diversa, probabilmente, sarebbe toccata alla sua Villa a Sospetto (prima, anche lì, aveva inaugurato un locale notturno nel “grottone”, a ridosso della strada statale, che ebbe scarsa fortuna) se vicende rocambolesche non ne avessero turbato l’iter e non fosse stato costretto a passare la mano. La villa fu pensata dall’architetto Enrico Natoli con lo sguardo e con il cuore in un vasto orizzonte di sole e di mare senza fine. Ma i due (Franco, intanto, era diventato sindaco di Vico) litigarono su tutto: sui volumi, sulle prospettive, sul disegno e, soprattutto, sul compenso. Natoli ben presto abbandonò, con tanti saluti all’armonia del luogo. La Soprintendenza, infine, diede il “via libera” a un progetto rabberciato e di dimostrò che la legge per la tutela del paesaggio non è uguale per tutti.
Il fratello di Franco, Peppino, funzionario della Cassa per il Mezzogiorno, un vero dandy che inseguiva, nell’atteggiamento e nell’abbigliamento, i dettami della moda più esclusiva, scelse, invece, un buen retiro ovattato, “Le Chandelles”, una villa sapientemente ristrutturata sulla statale per Vico, nella Pineta Marzini.
Al Mulino di Mare, puntuale ogni estate, da Annina Pascale, arrivava Giuseppe Cassieri, l’allievo prediletto di Pasquale Soccio e il lettore di Casa Papini a Firenze che, superate le burrasche giudiziarie legate al suo romanzo d’esordio Aria cupa, prendeva i bagni e inventava le trame dei suoi libri e dei suoi elzeviri per il Messaggero e la Gazzetta del Mezzogiorno, che presto lo portarono nell’olimpo della narrativa italiana. Lo scrittore rodiano, cedendo al fascino dei ritmi del luogo, si adattava a lunghe e quotidiane camminate: il trenino del Far West e la sbuffante e cigolante corriera delle FTM (Ferrovie e Tranvie del Mezzogiorno), che avevano sostituito l’elegante calesse, non incontravano il suo gradimento. (segue)
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