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Michele Eugenio Di Carlo

SULLE ORIGINI DELLA COLTIVAZIONE DEL FICO D’INDIA IN CAPITANATA

di Michele Eugenio Di Carlo

Raffaele Vittorio Cassitto, agronomo di Vieste e storico dell’agricoltura dauna, dopo aver scritto nel 1914 l’Estensione e produzione olearia Garganica e i suoi rapporti col commercio[1], nel 1915 la Climatologia di Viesti in rapporto all’agricoltura[2], nel 1922 Le Ciammaruchelle (lumache) [3], pubblica nel 1924, per i tipi di Paolo Cardone di Foggia, La coltivazione e l’industria del fico d’india.

Raffaele Vittorio Cassitto (Vieste 1888-Roma 1961) apparteneva a una famiglia dell’alta aristocrazia di origine straniera (i conti di Ortenburg), giunta nel Regno di Napoli nel XVI secolo e i cui rami discendenti si erano divisi tra Napoli, l’Irpinia e la Capitanata. Il nonno paterno Francesco Paolo (1826-1854), figlio del noto prefetto e senatore Raffaele (Lucera 1800-Portici 1873), trasferitosi a Vieste aveva sposato Filomena Petrone. Il nostro autore nasceva a Vieste dall’unione del padre Raffaele, unico figlio del prematuramente scomparso Francesco Paolo, con Teresa Spina, sorella del celebre sindaco Domenicantonio.

Riguardo le fasi iniziali della coltivazione del fico d’india in Capitanata, Cassitto citava Carlo De Cesare, che in un testo del 1859 sulle condizioni economiche delle province pugliesi[1] aveva annotato sulla Capitanata la scarsa presenza di piante di fichi d’india. Secondo l’agronomo viestano, la diffusione del fico d’india sarebbe avvenuta dopo le agitazioni proletarie di contadini e braccianti disoccupati degli anni 1878-1879. In quella circostanza, finalmente diversi comuni, tra i quali quello di Manfredonia, si videro costretti a cedere in enfiteusi[1] a disoccupati e braccianti privi di terra diversi latifondi demaniali incolti. Dei quattro latifondi incolti presenti a Manfredonia, furono scelti per la quotizzazione quelli denominati I Sciali e Le Mezzanelle.

L’incolto delle Mezzanelle, adiacente alla città per una superficie di 410 ettari, fu diviso in 211 quote dall’estensione variabile da 4 a 1,5 ettari a seconda della qualità del terreno e della vicinanza al centro abitato. I quotisti si resero subito conto che i terreni delle Mezzanelle, poco profondi, rocciosi e salsi, non erano adatti alla cerealicoltura e, avendo notato che alcune piante di fico d’india si erano adattate perfettamente alle condizioni pedo-climatiche, si dedicarono alla loro coltivazione con ottimi risultati produttivi ed economici, tanto da consentire a Cassitto, quarant’anni più tardi, di descrivere un paesaggio agrario del tutto mutato: «Chi in qualunque epoca dell’anno giunge a Manfredonia, è subito colpito da un caratteristico quadro di un bel verde, che si estende a ventaglio per una zona di 500 ettari, circondando la città da un punto all’altro del mare. Il bel verde è formato da una lussureggiante vegetazione di moltitudini di piante di fichi d’india, […]»[2].

Cassitto riscontrava che quasi tutto il latifondo Le Mezzanelle era stato ricoperto di “ficodindieti” in coltura specializzata e rilevava che da Manfredonia la coltivazione del fico d’india si era diffusa con estensioni minori non a coltura specializzata sui terreni rocciosi di Mattinata, Vieste, Peschici e nelle adiacenze dei centri abitati di Carpino, Cagnano e San Nicandro Garganico, oltre che dagli inizi del Novecento nelle località “Matine” di Rignano Garganico e San Marco in Lamis e “Costarelle” di San Giovanni Rotondo.

L’autore viestano non mancava di indicare l’estensione in ettari delle coltivazioni di fichi d’india, rilevandola dai dati catastali del 1910: Manfredonia 370, Mattinata 32, Carpino 25, Cagnano Varano 20, Vieste 12, Peschici 6. Tuttavia, l’autore precisava che nel 1924, anno di pubblicazione del testo, la superficie coltivata a fichi d’india era notevolmente aumentata, tenendo peraltro conto che i tecnici del catasto non avevano rilevato le piccole e numerose estensioni sparse presenti in quasi tutti i comuni della Capitanata.

Sull’importanza della coltivazione del fico d’india a Manfredonia, la giornalista sipontina Maria Teresa Valente, autrice del testo C’era una volta a Manfredonia recentemente pubblicato[1], ha scritto nel 2019 un articolo[2] in cui ripercorre la storia della diffusione del fico d’india dal Messico in Europa, confermando che in nessun luogo del Gargano sia mai stato coltivato in forma specializzata come a Manfredonia, dove l’albero è diventato un simbolo spesso presente nelle rappresentazioni letterarie e iconografiche. Valente ha riferito anche della presenza di numerosi scrittori e poeti che, tra Ottocento e Novecento, sono rimasti affascinati dalle grandi distese verdi di Opuntia ficus-indica, le quali si erano inoltrate fin dentro le antiche mura della città sipontina. Persino Giuseppe Ungaretti, ne Il deserto e dopo le Puglie, aveva manifestato tutto il suo stupore per quel paesaggio agrario del tutto peculiare. L’autrice finiva per riportare un episodio avvenuto durante la prima guerra mondiale e che aveva salvato la città: gli austriaci, avendo scambiato le palette dei fichi d’india per caschi militari, avevano finito per non bombardare il centro urbano.

Cassitto annotava l’eccezionale valore commerciale, “industriale” e ambientale del fico d’india, essendo una pianta arborea molto produttiva e particolarmente raccomandata «per consolidare le dune e mettere a coltura i terreni sabbiosi e per rinsaldare dirupi e scoscese rocciose», oltre che per formare siepi[3]. Peraltro, il fico d’india, diffusosi in Italia prima in Sicilia e Calabria, era definito il “pane del povero”.

A dimostrazione dell’alto valore nutritivo e delle qualità rinfrescanti, dissetanti e diuretiche del fico d’india, l’agronomo viestano citava i seguenti studiosi: Mancuso-Lima[4], Biuso-Varvaro[5], Sarcoli[6], Giglioli[7], Villavecchia[8], Ulpiani[9], Pantanelli[10].

Cassitto non rinunciava a elencare dettagliatamente i numerosi vantaggi che la pianta del fico d’india poteva apportare: consolidare i terreni in forte pendenza prevenendo il dilavamento del suolo nel caso di piogge torrenziali, rimboschire le colline nude e le aree rupestri del Gargano, fungere da muretto a secco nella sistemazione a terrazze laddove le pietre erano carenti, formare siepi vive invalicabili lungo le strade ferrate, servire da frangivento attenuando i danni dei venti dominanti, oltre a essere utilizzato come foraggio (a Ischitella le palette già venivano utilizzate come mangime per i bovini) oppure come concime e ammendante[11].

Rilevato che a Manfredonia la coltivazione del fico d’india in coltura specializzata generava alti redditi avendo poche spese, Cassitto sperava che si avviasse un vero e proprio processo di industrializzazione, visto peraltro che il frutto, oltre a essere venduto sulle piazze pugliesi, abruzzesi e campane, cominciava con profitto a essere esportato all’estero in Dalmazia, Austria e Germania[12]. Un processo di industrializzazione che avrebbe davvero potuto concretizzarsi, visto che dalla pianta di fico d’india era possibile estrarre cellulosa, gomma, alcol, ma anche produrre ottime «marmellate, conserve, gelatine, sciroppi e estratti diversi», ricercati «in confetterie e per colorare gelati e gelatine»[13].

Oggi, percorrendo in auto la tangenziale intorno a Manfredonia, è possibile notare la residua presenza delle vecchie estensioni specializzate di fico d’india in mezzo a campi incolti e abbandonati, tornati allo stato antecedente agli immani sforzi compiuti da quei 211 pionieri che grazie al fico d’india riuscirono a riscattare una vita di stenti e di miseria.

[1] T. M. Valente, C’era una volta a Manfredonia, Youcanprint, 2022. [2] T. M. Valente, Il fico d’India: la pianta che trasformò il paesaggio di Manfredonia, in «Stato Quotidiano», 3 agosto 2019. [3] R. V. Cassitto, La coltivazione e l’industria del fico d’india, cit., p.10. [4] G. Mancuso-Lima, Analisi chimica dei frutti agostani e scoccolati del fico d’india, Le Stazioni Sperimentali Agrarie italiane, Vol. XXVIII fasc. XII, Modena 1895. [5] S. Biuso-Varvaro, Il fico d’india in Sicilia, Palermo, Fratelli Marsala, 1896. [6] L. Sarcoli-C. Ulpiani, Sulla fermentazione alcoolica del mosto di fico d’india, Palermo, Tip. Lo Statuto, 1901. [7] I. Giglioli, Chimica Agraria campestre e silvana, Napoli, Marghieri, 1902. [8] V. Villavecchia, Dizionario di Merceologia e di chimica applicata, Milano, Hoepli, 1911. [9] C. Ulpiani, La lotta contro il deserto, Portici, Tip. E. Della Torre, 1914. [10] E. Pantanelli, Produzione di alcool dal fico d’india, Le Stazioni Sperimentali Agrarie italiane, Vol. LIII, Modena 1920. [11] Cfr. R. V. Cassitto, La coltivazione e l’industria del fico d’india, cit., pp.11-16. [12] Cfr. ivi, pp. 20-21. [13] Ivi, p. 16.

[1] L'enfiteusi è il diritto di godere di un fondo altrui con l'obbligo di migliorarlo e di pagare al proprietario un canone. L’enfiteusi può essere perpetua o temporanea per non meno di 20 anni e comporta il diritto di affrancazione del fondo rustico, allora regolato pagando una somma pari a 15 volte il canone annuo. [2] R. V. Cassitto, La coltivazione e l’industria del fico d’india, Foggia, Tipografia Paolo Cardone, 1924, p.4. [1] C. De Cesare, Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre province della Puglia, Napoli 1859. [1] R. V. Cassitto, Estensione e produzione olearia Garganica e i suoi rapporti col commercio, Napoli, Tip. Giaccio e Frezza, 1914.


[2] R. V. Cassitto, Climatologia di Viesti in rapporto all’agricoltura con appendice alla climatologia Garganica, Bari, Tip. Alighieri, 1915. [3] R. V. Cassitto, Le Ciammaruchelle (lumache), Foggia, Bollettino della Camera di Commercio di Foggia, anno X, n. 1, 1922.


Raffaele Vittorio Cassitto (foto della nipote Teresa Cassitto)


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